Se l’amministrazione Biden abbia ben gestito la crisi sull’Ucraina ce lo diranno il tempo, lo sviluppo della guerra e le modalità con cui sarà infine risolta oltre che, tra qualche decennio, documenti che magari faranno luce su aspetti oggi ignoti delle discussioni e dei negoziati degli ultimi mesi.
Quello che possiamo fare è cercare di capire contesto e obiettivi dell’azione diplomatica statunitense: avanzare delle ipotesi sulle condizioni (possibilità e costrizioni) entro le quali si è mossa e sulle sue finalità ultime.
Le condizioni, innanzitutto. Che in un primo momento sembravano offrire margini di manovra assai limitati, con un’opinione pubblica statunitense pesantemente scottata dai fallimenti dell’interventismo militare dell’ultimo ventennio, l’umiliante memoria della debacle afghana ancora molto viva, un quadro politico interno polarizzato, una crisi costituzionale e democratica tutt’altro che risolta, e un’Alleanza Atlantica segnata a sua volta da profonde divisioni, con alcuni alleati fondamentali – Germania su tutti – refrattari a seguire la ferma linea anti-russa di Biden. È altamente probabile che tutte queste fragilità abbiano contribuito alla decisione finale di Putin d’invadere l’Ucraina; lo abbiano cioè indotto a credere che la controparte fosse debole e incapace di fronteggiare questo nuovo imperialismo russo. Al momento, il presidente russo pare avere sbagliato i suoi calcoli, anche se il vero fattore – che sarà dirimente anche nelle ore e nei giorni a venire – risulterà la capacità ucraina di continuare a resistere, esponendo le sorprendenti falle, operative e di pianificazione, dell’operazione russa. Mosca riteneva chiaramente che le summenzionate debolezze statunitensi ed europee avrebbero facilitato un blitzkrieg capace di conquistare rapidamente Kiev e installare un regime amico. Così non è stato e ciò ha dato agli Usa tempo e modo per guidare una ferma, e par di poter dire incisiva, risposta internazionale nella quale gli europei, e l’Unione Europea, stanno giocando un ruolo cruciale. Risposta facilitata e in una certa misura incentivata da opinioni pubbliche europee e americane che di fronte a una violazione così palese della legalità internazionale e, anche, a un Putin calatosi quasi grottescamente nel ruolo del leader violento e autoritario, le hanno offerto un sostegno ampio e quasi entusiastico.
E questo ci porta quindi a ciò che ha reso possibile una fermezza e coesione transatlantica tutt’altro che scontate. La hybris e, a quanto pare, la perdità di contatto con la realtà di Putin e dei suoi consiglieri sono stati appunto fondamentali. Tutti concentrati sulle debolezze, se non addirittura il presunto declino, degli Usa abbiamo però dimenticato di considerare che gli Stati Uniti sono ancora, e per distacco, la principale potenza mondiale; che anche un paese come la Russia, che dopo il 2014 aveva cercato di proteggersi da eventuali rappresaglie economiche diversificando e accrescendo ad esempio le proprie riserve, è massicciamente esposto al potere finanziario americano; e che in crisi di questa portata, quando le carte della diplomazia terminano e i margini di autonomia dei soggetti minori si assottigliano, gli alleati finiscono inevitabilmente per gravitare attorno a un egemone, gli Usa appunto, che a dispetto di tutto non ha affatto cessato di essere tale. Alleati minori, quelli europei, ma comunque decisivi. Perché, ultima condizione da considerare, saranno loro in caso di crisi prolungata a pagare i costi maggiori, essendo l’UE per distacco il maggiore partner commerciale e la principale fonte d’investimenti diretti della Federazione Russa (il volume di scambi commerciali con l’Unione Europea sfiora il 40% di quelli russi totali; con gli Usa si collocano di poco al di sopra del 3%). In altre parole, questa condizionalità a vantaggio di Mosca – potenzialmente più pesante per l’Europa – è quasi assente per gli Usa. Così come lo sono altre possibili conseguenze del conflitto, a partire da un flusso di rifugiati di cui si dovrà ovviamente far carico l’Unione Europea. Rispetto al quadro politico interno, infine, a dispetto delle simpatie per Putin di alcuni settori della destra trumpiana e del diffuso anti-interventismo, vi è invece un ampio consenso bipartisan nel considerare la Russia come uno dei principali nemici degli Usa e nell’appoggiare quindi la linea della fermezza adottata da Biden. Diversamente da altri contesti, il presidente non deve temere contraccolpi politici ed elettorali, ovvero li rischia in caso di eccessiva timidezza e passività.
Se dal contesto passiamo agli obiettivi, quali vantaggi pensa e spera di poter trarre Biden da questa crisi? In una frase, e con uno slogan, potremmo dire che tali vantaggi sono ideologici, diplomatici e strategici. In poche giornate, Putin vede bruciato un capitale se non di popolarità quantomeno di credibilità che la sua azione internazionale sprezzantemente cinica e realista gli aveva permesso di maturare. Di nuovo, il guadagno statunitense sembra per il momento essere soprattutto funzione degli errori del presidente russo. E nondimeno, questi primi giorni di guerra e l’ondata di solidarietà per la mobilitazione e la resistenza ucraina paiono validare quella retorica democratica e internazionalista che Biden ha da subito messo al centro del suo discorso di politica estera. Nel mentre, la guerra non solo non divide il fronte euro-americano, ma lo compatta come non avveniva da tempo, in nome sia di un rinnovato atlantismo sia di un europeismo pronto a estendersi rapidamente alla stessa Ucraina. Un ricompattamento che potrebbe trasformarsi anche in un evidente vantaggio strategico, laddove la guerra dovesse concludersi con una non vittoria russa che chiuderebbe definitamente le porte al sogno di Putin di ricostruire una nuove sfera d’influenza in Europa centro-orientale e probabilmente sancirebbe la sua fine politica.
Tutto bene, dunque? No, e le ragioni sono plurime. La guerra continua, il rischio di dure escalation che colpiscano sempre più pesantemente i civili è dietro l’angolo, l’impatto destabilizzante sull’economia globale – e su quella europea in particolar modo – tutt’altro che scongiurato. Tante costrizioni rimangono ancora attive e pensare di poterle forzare – si pensi solo a quella minaccia nucleare non a caso evocata da Putin – rischia di portarci verso scenari inimmaginabili e catastrofici. Anche se validata dall’esito di questa crisi, la retorica binaria di un mondo diviso tra democrazia e autoritarismo, libertà e schiavitù, potrà anche risultare moralmente appagante, ma non offre certo una bussola utile per muoversi in un sistema internazionale opaco, complesso e instabile. Anche perché – ultimo punto – ci porta a rileggere male la storia recente e quel che ci dice. Ci porta ad esempio a credere che la Guerra Fredda sia stata infine vinta perché la democrazia ha trionfato sull’autoritarismo, il Bene sul Male, laddove invece è stato il dialogo e l’interdipendenza sempre più intensa tra le due parti a permettere di pilotarne un esito che poteva essere ben più tragico e violento. Ecco perché i negoziati di oggi aprono una partita estremamente delicata, nella quale gli Usa e i loro alleati, incluso quello ucraino, dovranno eventualmente dimostrare di poter offrire una via d’uscita alla controparte.