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Brasile

Amazzonia in fiamme: le pressioni su Bolsonaro funzioneranno?

Emiliano Guanella
03 Agosto 2020

In piena pandemia da Covid 19 l’Amazzonia brasiliana continua a bruciare e la deforestazione batte nuovi record. Nel primo semestre del 2020 sono stati occupati 3.000 ettari di foresta, un aumento del 25% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Per trovare un livello simile bisogna risalire a 11 anni fa, mentre se si guarda il dato accumulato degli ultimi 12 mesi l’aumento è del 64%: numeri che preoccupano, anche perché adesso inizia la stagione arida, quella dove tradizionalmente si concentra il maggior numero di incendi dolosi, come si è visto nell’agosto dell’anno scorso.

Rispetto al passato, però, c’è una grande novità che potrebbe cambiare lo scenario; oltre alle preoccupazioni manifeste da diversi leader di governo internazionali, perlomeno quelli schierati contro il riscaldamento globale, a intervenire ora anche è la grande finanza internazionale, che chiede al Brasile una policy diversa per salvare la foresta. Sul governo Bolsonaro, ritenuto responsabile delle deregulation delle norme ambientale e di un manifesto lassismo nei confronti degli agenti devastatori dell’Amazzonia, sono arrivate le pressioni di una ventina di grandi fondi finanziari globali.

Giganti come Blackrock, L.G.I.M., il fondo pensioni della Norvegia o quello della Chiesa anglicana hanno detto chiaramente che sono disposti a ritirare le loro posizioni in attivi brasiliani se Brasilia non fa qualcosa per frenare la tendenza in atto. Il governo norvegese ha deciso di congelare i finanziamenti del Fondo Amazzonia dopo che Bolsonaro ha trattenuto parte dei fondi che erano inizialmente destinati alle Ong che si occupano di preservare la foresta. Creato nel 2008, il Fondo, a cui partecipa in parte minore anche la Germania, ha stanziato finora 1,3 miliardi di dollari. Il vicepresidente brasiliano Hamilton Mourao ha incontrato alcuni direttori di fondi di investimento in videoconferenza a fine giugno e ha promesso un impegno serio del governo, annunciando una moratoria dei roghi che si vuole imporre, mediante l’esercito, almeno fino a novembre. “Siamo i primi – ha detto Mourao – a voler preservare l’Amazzonia perché si tratta delle nostra più grande ricchezza naturale”.

L’operazione militare in Amazzonia comprende l’invio di 3.600 tra soldati e agenti di polizia ambientale al fine di evitare l’escalation dei roghi vista nell’agosto 2019. Per ora i risultati non si vedono; nel mese di luglio la deforestazione ha raggiunto un altro record, con 6803 roghi registrati dall’INPE, il sistema di rilevamenti satellitari. Il picco è stato negli ultimi due giorni del mese, con 1500 roghi in 48 ore, come non si vedeva dal 2005. Mentre Mourao cerca di placare roghi e polemiche, Bolsonaro non demorde sulla linea. Secondo il presidente, lo ha ricordato recentemente, il Brasile si trova sotto l’attacco di una “setta ambientale internazionale”.  “Una cosa è la preoccupazione per l’ambiente, che condividiamo; un’altra è la pretesa di certi governi europei di venire a insegnare a noi cosa dobbiamo fare, dopo che per tre secoli l’Europa ha distrutto tutte le sue foreste”.

In gioco non ci sono solo gli investimenti in titoli del tesoro o azioni di compagnie pubbliche brasiliane a Wall Street. C’è anche la reputazione dell’agribusiness brasiliano, settore trainante dell’economia nazionale, visto che si tratta del primo esportatore al mondo di soia e del secondo di carne bovina. In diverse capitali stanno sorgendo gruppi di consumatori organizzati che lanciano campagne di boicottaggio dei prodotti brasiliani. A Berlino una nota catena di supermercati ha ritirato parte della carne brasiliana che stava vendendo, azioni simili si sono viste a Londra, Parigi e New York. “Non comprate carne e soia – recitano gli appelli – che può venire da terre rubate alla foresta”.

Uno studio pubblicato a inizio luglio sulla rivista Science ha rilevato che il 22% della carne brasiliana venduta nel mercato della UE proviene da allevamenti sorti in terre deforestate. Amnesty International punta il dito contro il colosso JBS, che in Italia produce anche una nota marca di bresaola valtellinese, perché ha ammesso che non riesce a controllare tutti i suoi fornitori esterni. A fine luglio il fondo Nordea Asset Management ha escluso la Jbs dal suo portafoglio di titoli. L’Italia è il primo importatore europeo di carne brasiliana, mentre per la soia lo è l’Olanda.

La provenienza dei prodotti brasiliani può far saltare anche l’accordio commerciale stretto tra UE e Mercosur e quello tra EFTA e Mercosur. Queste intese devono essere ratificate dai parlamenti di tutti gli stati membri e ci sono molte resistenze soprattutto in Francia, Olanda, Austria e tra i coltivatori Svizzeri, molto influenti politicamente. “Se le imprese non correggono il tiro – spiega il ricercatore Raoni Rajao Guerra – rischiano di pregiudicare tutto il settore, colpendo persino chi produce fuori dall’Amazzonia e non ha nulla a che vedere con la deforestazione”. Le “mele marce” dell’agribusiness brasiliano, come sono chiamate nello studio pubblicate da Science, creano un danno d’immagine enorme che potrebbe tradursi in pesanti ritorsioni commerciali.

Se è vero che i principali clienti per la soia e la carne dell’Asia e del Medio Oriente (Cina, Hong Kong, Singapore, i paesi arabi e l’Iran) non sono particolarmente preoccupati per le questioni ambientali è comunque chiaro che l’azione congiunta di governi e consumatori europei assieme alla posizione dei grandi fondi finanziari globali deve preoccupare Brasilia. Se non ripensa la sua linea di laissez-faire sull’Amazzonia, il Brasile di Bolsonaro potrà trovarsi in difficoltà proprio nella difficile fase economica post pandemia.     

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Emiliano Guanella
CORRISPONDENTE DA SAN PAOLO (RSI - TV SVIZZERA E LA STAMPA) E ANALISTA POLITICO

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