Per circa 60 anni la principale potenza asiatica in America centrale non è stata la Cina ma Taiwan. All’inizio degli anni Duemila le sirene del Dragone hanno però iniziato a sedurre i Paesi dell’istmo e il primo a effettuare il grande salto e lo switch nelle relazioni diplomatiche da Taiwan alla Cina è stato il Costa Rica nel 2007. Questo storico cambiamento è però passato in sordina e non ha destato particolari allarmi né tra i vicini dell’area né negli USA, che considerano l’America Latina il “giardino di casa” e l’America centrale ancor di più. Dopo qualche anno di stallo, dal 2017 in rapida successione il cambiamento è stato deciso da Panama, El Salvador e, nell’area caraibica, dalla Repubblica Dominicana. Gli altri quattro Paesi dell’area rimangono al momento fedeli a Taiwan, ma in molti si chiedono fino a quando.
Per comprendere come si è arrivati a questi cambiamenti è necessario analizzare brevemente i fondamentali dell’area. Se i 7 Paesi che formano l’America centrale costituissero un solo blocco formerebbero la settima economia dell’America Latina con circa 46 milioni di abitanti e un Pil, a parità di potere d’acquisto, di poco inferiore a 300 miliardi di dollari. Questi Paesi sono però caratterizzati da elevata eterogeneità non solo tra loro ma anche internamente, senza tralasciare il fatto che culturalmente non appartengono tutti all’America Latina visto che il piccolo Belize ha matrice britannica. Secondo le classificazioni aggiornate di Banca Mondiale, nessuna tra le economie dell’area figura tra quelle ad alto reddito visto che Panama è appena stata retrocessa a upper-middle income, categoria di cui fanno parte anche Costa Rica e Guatemala. Più indietro, nel novero dei lower-middle income, gli altri quattro Paesi: El Salvador, Honduras, Nicaragua e Belize.
Tra crescita economica e instabilità politica
L’America centrale è una regione negletta, difficilmente al centro dell’attenzione mediatica se non per motivi negativi legati a criminalità, sicurezza e migrazioni, che provengono in particolare dai Paesi del Triangolo Nord (Guatemala, Honduras ed El Salvador) verso Messico e, soprattutto, Stati Uniti. Guardando alle performance di crescita della regione in realtà gli ultimi tre decenni sono stati un periodo di crescita a tassi sostenuti, visto che, come evidenzia Banca Mondiale in un recente rapporto, tra il 1991 e il 2017, il Pil delle economie dell’area (Belize escluso), è cresciuto a un tasso medio annuo del 4,5%, più della media dell’America Latina e dei Paesi OCSE ma dietro alla regione dell’Asia-Pacifico.
L’America centrale ha beneficiato in questo periodo in primis di una relativa stabilizzazione del quadro politico: se negli anni ’70 e ’80 l’area era stata tra le più volatili al mondo a causa delle rivoluzioni e dei conflitti interni che l’hanno per lungo tempo scossa con l’unica eccezione rappresentata dal Costa Rica, dai primi anni ’90 la situazione è mutata in positivo e ciò ha portato a un periodo di crescita e di riduzione delle distanze rispetto ai Paesi avanzati, evidente in particolare per economie quali Panama (che dal 2000 ha riacquistato la sovranità sul Canale, uno degli snodi cruciali del trasporto marittimo mondiale) e Costa Rica, entrambi capaci di colmare parte del gap nei confronti del Pil pro capite degli USA, benchmark di riferimento per questo tipo di statistiche. Oggi la situazione si è però nuovamente complicata considerata la repressione sempre più forte in atto in Nicaragua dal 2018, il crescente autoritarismo del presidente Bukele in El Salvador e le difficoltà in cui si dibatte da tempo l’Honduras. Non mancano poi le tensioni in alcuni Paesi non lontani dell’area caraibica e al momento sotto i riflettori, partendo dalla “dannata” Haiti all’inquieta Cuba.
Il “cortile di casa” di Washington
Tornando al periodo considerato da Banca Mondiale, la crescita del Pil è stata accompagnata e sostenuta dalla domanda estera, che ha accelerato la transizione già in atto in molte di queste economie da un tessuto produttivo fondato sull’agricoltura a uno basato sulla manifattura: l’export di beni manufatti è cresciuto in media del 20% all’anno e la quota di beni manufatti sul totale dei beni esportati è più che raddoppiata dal 22% del totale nel 1991 al 45% nel 2017. Il principale partner commerciale restano gli USA, che sono anche la prima fonte di investimenti diretti esteri, turisti e rimesse degli emigrati. La quota di beni esportati verso gli USA oscilla tra il 35% del Guatemala e quasi il 60% del Nicaragua ed è leggermente aumentata nel periodo considerato, agevolata dal trattato CAFTA-DR (Central American Free Trade Agreement – Dominican Republic), accordo di libero scambio tra USA ed economie centroamericane (Belize e Panama escluse) operativo dal 2006. Tale accordo si estende anche alla protezione dei diritti internazionali di proprietà, agli investimenti e a norme relative a procurement pubblico e ai servizi finanziari.
Oltre al ruolo preminente degli USA per l’area centroamericana ciò che si evince dalle statistiche è il netto aumento della quota di commercio tra Paesi dell’istmo centroamericano, passata dal 14% al 25% del totale. Questo trend, se confermato nei prossimi anni, potrebbe rappresentare una vera svolta per queste geografie, generalmente di piccole dimensioni e caratterizzate da scarsa integrazione, anche per problemi logistici legati a un’orografia complessa e persistenti deficit infrastrutturali. L’integrazione commerciale è un tema rilevante perché si inserisce all’interno di quello della regionalizzazione delle catene del valore, effetto secondario del confronto strategico tra USA e Cina.
Pechino tenta di inserirsi
La Cina si offre, come in altri contesti, quale partner di medio-lungo periodo per lo sviluppo infrastrutturale, ma non è stata certo ferma nella congiuntura attuale. La “diplomazia dei vaccini” è venuta in soccorso non solo di un Paese quale El Salvador, sempre più in rotta con gli USA, ma ha tentato anche uno storico alleato di Taiwan quale l’Honduras. Non è un caso che il 12 maggio scorso il presidente uscente Hernández abbia annunciato la volontà di aprire un ufficio commerciale governativo in Cina al fine di facilitare le interlocuzioni circa l’approvvigionamento di vaccini, provocando la pronta reazione di Taiwan.
Per gli USA la penetrazione cinese in America centrale costituisce una sfida insidiosa perché si tratta di una minaccia a breve distanza dai confini della potenza egemone e li obbliga a un ruolo maggiormente assertivo nell’area. Considerata l’elevata eterogeneità tra i Paesi dell’istmo non è semplice per l’amministrazione Biden impostare politiche in grado di mantenere la stabilità nella regione valorizzando le vocazioni dei singoli contesti.
Partendo dai Paesi del Triangolo Nord la nuova amministrazione americana non può fermarsi alle politiche securitarie dell’era Trump volte a fermare le caravanas (in partenza soprattutto da El Salvador e Honduras) ma nemmeno può passare un messaggio troppo soft, in grado di innescare ulteriori aumenti delle partenze rispetto a quelle registrate negli ultimi mesi e, in ultima istanza, comportare costi elettorali pesanti per i Democratici nelle elezioni di mid-term, ormai in vista. Diversa la situazione in Nicaragua dove le sanzioni statunitensi potrebbero salire di livello per cercare di provocare un cambio di regime, anche se al momento le probabilità appaiono piuttosto basse, quantomeno fino alle presidenziali di novembre. Ancora, diverso dal passato il supporto al Costa Rica, geografia peculiare all’interno dell’area in quanto stabile e pacifica ma che ha faticato molto negli ultimi anni a fronteggiare il deterioramento del quadro fiscale e necessita del supporto del Fondo Monetario di cui gli USA sono uno dei principali azionisti. Certo, il Costa Rica è anche l’unico Paese dell’area a essere entrato da pochissimo nell’OCSE quale 38esimo membro e ciò potrebbe facilitare investimenti e ripresa economica. Mettere le mani su Panama (e soprattutto sul cruciale Canale) è infine l’obiettivo cinese principe in questa fase: agli USA il compito di puntellare le relazioni con Panama.
Catene del valore più integrate?
Come si inserisce in questo contesto la regionalizzazione delle catene del valore? Dallo scoppio della pandemia temi quali ripiegamento della globalizzazione, accorciamento delle catene del valore e reshoring sono stati e continuano a essere molto dibattuti tra gli esperti. Per l’America Centrale ciò potrebbe costituire una grande occasione di sviluppo? La risposta è incerta. Bisogna considerare in primis che già esistono catene di produzione regionali, basta pensare alle maquiladoras in Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua attive soprattutto nei settori tessile e automotive, oppure all’inserimento del Costa Rica nelle produzioni a medio-alta tecnologia statunitensi (in particolare dispositivi medicali).
La riconfigurazione di altre catene di produzione esistenti non è fenomeno di corto respiro e non può prescindere dall’inclusione del Messico, il Paese di tutta l’America Latina già oggi più integrato nelle catene regionali e globali. Certo per i Paesi dell’area centroamericana creare le condizioni di contesto atte a favorire maggiori investimenti e la possibilità di inserirsi in alcuni processi produttivi è sempre più pressante visto che anche per questi Paesi il dividendo demografico favorevole va affievolendosi e tornare a crescere a tassi sostenuti non può che passare da investimenti materiali e immateriali.