Il 15 dicembre 2010, un barcone di legno con a bordo un centinaio di migranti si è schiantato contro gli scogli dell’isola provocando la morte di più di 40 persone, altrettanti feriti e un imprecisato numero di dispersi. L’allarme alla Marina è stato lanciato dagli isolani stessi quando ormai era però troppo tardi per effettuare un salvataggio completo con un mare in tempesta.
Potrebbe sembrare una di quelle tragedie consumatesi nel Mar Mediterraneo in questi anni e, invece, la vicenda in questione ha avuto luogo dall’altra parte del globo e “l’isola” menzionata non è Lampedusa. Si tratta di Christmas Island, un lembo di terra di 135 chilometri quadrati che, così come evoca il nome stesso, ha rappresentato per molti una speranza, la porta verso un nuovo inizio. Christmas è l’isola sotto giurisdizione australiana più vicina all’Indonesia e la sua posizione geografica – a 360 chilometri da Giava e a più di 2000 dalle coste australiane – l’ha resa nell’ultimo decennio terra di approdo di un numero crescente di migranti che lasciano il loro paese per chiedere asilo presso il continente nuovissimo, dalle risorse sconfinate. Anche in questo caso a essere coinvolti sono gruppi – soprattutto di curdi, indonesiani, iraniani, iracheni e pachistani - che sfuggono da guerre, dittature, povertà e minacce.
In Australia, da sempre gettonata terra di migranti, le politiche d’immigrazione rappresentano uno dei punti più dibattuti in ogni programma politico e la valutazione della quantità e “qualità” delle persone cui aprire i confini corrisponde a una precisa scelta di politica economica. Il numero di visti concessi viene valutato di anno in anno in base ai trend economici. Nell’autunno 2010 è stata persino varata una riforma finalizzata a favorire la selezione degli immigrati maggiormente qualificati e con i più alti livelli d’istruzione, in modo che possano contribuire allo sviluppo economico australiano di lungo periodo. Oggi i lavoratori qualificati rappresentano il 68% dell’immigrazione totale verso l’Australia. Un approccio ancor più rigoroso, fomentato da preoccupazioni di minacce alla sicurezza, è stato d’altronde adottato per contrastare gli episodi d’immigrazione irregolare, costituiti principalmente dagli sbarchi sulle coste australiane delle così nominate boat people.
Le basi della linea politica d’intransigenza praticata dall’Australia per contrastare il fenomeno sono state gettate già nel 1992, con l’introduzione da parte dell’allora governo laburista di Keating della procedura di detenzione obbligatoria e dell’elaborazione delle pratiche di richiesta d’asilo in mare aperto. Nel 2001, poi, il governo conservatore di John Howard ha inserito il provvedimento all’interno della Pacific Solution, che prevedeva, tra le altre cose, il trattenimento degli immigrati nelle isole di Manus e Nauru fino a quando le richieste d’asilo non venivano esaminate, la protezione militare delle frontiere e la rimozione delle isole e degli scogli dalla zona d’immigrazione australiana. Howard ebbe anche modo di dare una dimostrazione – definita dall’opinione pubblica come “scandalosa” – della sua politica dei respingimenti quando, nell’agosto 2001, rifiutò a un mercantile norvegese di sbarcare 434 naufraghi afghani che aveva raccolto in mare mentre cercavano di raggiungere l’Australia.
Il cuore della Pacific Solution, nonostante le forti critiche raccolte per i suoi elevati costi economici (pari a quasi 310 milioni di dollari dal 2001 al 2008) e per la violazione degli impegni assunti a livello internazionale, è stato mantenuto nel secondo piano di contrasto all’immigrazione clandestina, stavolta di matrice laburista. L’Indian Ocean Solution, infatti, entrata in vigore nel 2009, ha rimosso alcuni eccessi della politica anti-profughi attuata dalla coalizione di governo precedente, continuando però a praticare la strategia chiave di deterrenza: la detenzione offshore. Il luogo scelto allora per trattenere ed elaborare le richieste di asilo era proprio Christmas Island, troppo lontana perché si potesse avere accesso alle informazioni e per essere facilmente raggiunta da attivisti e avvocati pronti a impugnare le richieste di protezione dei profughi.
Negli ultimi due anni l’Isola di Natale è tornata sotto i riflettori e a essere uno dei principali terreni di scontro tra liberali e laburisti alle elezioni del 7 settembre 2013. Solo nel 2012 sono approdate sulle sue coste 14.000 profughi, di cui oltre 240 hanno perso la vita durante la traversata in mare. L’isola, nella quale si contano meno di 2000 residenti, è diventata la sede del più grande centro di detenzione australiano che oggi ospita oltre 3000 immigrati irregolari detenuti in condizioni al limite della sopravvivenza. Per fronteggiare i numerosi sbarchi settimanali, diventati più frequenti a giugno 2013, Canberra ha inizialmente reagito schierando la Marina per intercettare e, quando possibile, rimandare indietro i barconi. La strategia militare non ha però sortito risultati significativi così il primo ministro Tony Abbott – che aveva condotto la sua penultima campagna elettorale a suon dello slogan “Stop alle barche” – ha deciso di portare avanti il provvedimento che era già stato presentato dall’ex premier laburista Kevin Rudd pochi mesi prima delle elezioni: una linea molto conservatrice elaborata probabilmente nella speranza di attrarre i voti dei nazionalisti più intransigenti.
Il 19 luglio 2013 Rudd ha sottoscritto un accordo col premier della Papua Nuova Guinea, Peter O’Neill, attraverso il quale si stabilisce che i richiedenti asilo non verranno più accolti su territorio australiano. L’intesa bilaterale – che sarà sottoposta a revisione annuale – prevede, infatti, che il governo papuano accetti automaticamente qualsiasi immigrato sbarcato sull’Isola di Natale; Canberra, di contro, si incarica di sostenere i costi di questa accoglienza forzata, che garantirà agli immigrati lo status di rifugiato, ma non l’asilo politico. L’obiettivo politico dichiarato per giustificare l’adozione di una linea a tal punto radicale è la volontà di porre una fine alle tragedie umane in acque australiane – che si stima abbiano causato più di un migliaio di morti negli ultimi anni – e il blocco dei trafficanti, per lo più indonesiani, di esseri umani.
Dietro l’ostentato volto caritatevole del provvedimento s’intravede, tuttavia, chiaramente l’ennesima concretizzazione della linea di potenziamento alla sicurezza che l’Australia si adopera ad attuare da alcuni anni a questa parte. Dopo la pubblicazione del Libro Bianco della Difesa del 2009 – vero e proprio vademecum che elenca i piani di rafforzamento dei vari scomparti militari australiani – e i numerosi accordi di cooperazione regionale strategicamente stipulati con i vicini potenzialmente più pericolosi (primo fra tutti l’Indonesia), l’Australia ha trovato un nuovo fronte sul quale combattere la propria battaglia di controllo radicale sull’area ed ergersi a garante della sicurezza agli occhi dei partner più rilevanti, quali Stati Uniti e Cina, trasmettendo il messaggio che i loro interessi sul paese non corrono alcun rischio.
A ricercare protezione è proprio, quindi, la ricca e potente Australia che, devolvendo le responsabilità di un grande stato a paesi piccoli e impoveriti, indebolisce la legge internazionale e vanifica decenni di lotta per i diritti umani di cui gli stati maggiori si sono sempre fatti promulgatori e garanti, distruggendo la facciata di una società benevola e fortunata pubblicizzata fino a ora al mondo.