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Commentary

Ancora un'ultima chance per la Libia

Arturo Varvelli
26 settembre 2014

La Libia appare oggi un paese allo sbando, che vive una situazione di caos, vicina a quella che potrebbe definirsi una “multifactional civil war”, una guerra civile tra numerose fazioni, seppure a bassa intensità. 

Le cause di questa situazione sono numerose: alcune sono da ascrivere al regime di Gheddafi, in particolare alla sua particolare forma di governo “informale” che ha impedito la creazione di istituzioni che sopravvivessero alla sua caduta; altre, forse maggiori, come sottolineato anche da Karim Mezran dell’Atlantic Council, sono da ascriversi al “falso mito della rivoluzione” che si sarebbe compiuta dal 17 febbraio 2011. La narrazione della Rivoluzione ha fatto si che non si prendesse atto che gli accadimenti seguenti quella data fossero in realtà da considerarsi come una vera e propria guerra civile. Questo confronto non si è purtroppo chiuso con l’uccisione di Muammar Gheddafi ma è rimasto latente per diversi mesi e si è progressivamente infiammato con il trascorrere del tempo e con l’incapacità dei governi libici di fare i conti con la storia, di aprire un nuovo capitolo di convivenza attraverso l’instaurazione di un nuovo patto sociale tra tutte le parti. 

Un'accelerazione negativa degli eventi l’ha fornita il rovesciamento di Mohammed Morsi n Egitto, un fattore che ha inciso gravemente sulla possibilità di un accordo politico tra le forze vicine alla Fratellanza e quelle più laiche. Dopo quella data il fenomeno di polarizzazione politica si è progressivamente ampliato al campo militare fino agli scontri nella città di Tripoli e in particolare all’aeroporto tra le milizie di Misurata, amiche della Fratellanza, e le forze di Zintan, vicine al partito di Mamhud Jibril. 

La comunità internazionale ha certamente le sue colpe avendo condotto un intervento militare che nell’illusoria speranza di lasciare “la Libia ai libici” ha lasciato la Libia in balia dei propri problemi e non si è assunta, o si è assunta troppo tardivamente, la propria responsabilità di aiuto politico nei confronti della nuova Libia. 

Che fare ora? Mentre un nuovo intervento militare internazionale cerca di porre rimedio alla destabilizzazione di una grande area tra Siria e Iraq a opera degli jihadisti dello Stato Islamico può la comunità internazionale pensare a un nuovo intervento in Libia? Con quale obiettivo? Con quali mezzi? Chi ha la capacità di farlo?

Innanzitutto bisogna cercare di avere una visione di quello che sta succedendo e della polarizzazione politica di cui si è detto un po’ meno manichea di quanto la stampa internazionale abbia riportato. La Libia non appare completamente in mano ai radicali islamici, nonostante essi costituiscano certamente, in una simile situazione di caos, la maggior minaccia al futuro del paese. Le milizie di Misurata non possono essere paragonate ed equiparate al gruppo jihadista Ansar al-Sharia prevalentemente presente in Cirenaica. Nonostante le milizie di Misurata e il loro referenti politici nella Fratellanza musulmana abbiano avuto spesso posizioni ambigue e talvolta abbiano mostrato una convergenza tattica con i radicali, questo legame non è affatto ideologico ma frutto della contingenza e della campagna militare indiscriminatamente lanciata contro gli “islamisti”. Difficile pensare ad una Libia pacificata escludendo la terza città del paese, appunto Misurata. 

La comunità internazionale deve lanciare un messaggio univoco e cercare di parlare con una voce sola. Il primo – importante passo – è stato fatto con la redazione di un comunicato congiunto dei paesi europei, degli Stati Uniti e degli attori regionali, dall’Egitto agli Emirati, dal Qatar alla Turchia che hanno interessi nel paese e hanno tenuto posizioni anche molto differenti finendo per favorire questa polarizzazione. L’Alleanza Atlantica può favorire il mantenimento di questa linea comune. L’opzione da perseguire rimane quella dell’inclusione di tutte quelle forze che avevano dimostrato di voler partecipare al processo democratico. Il vero cuneo andrebbe messo tra forze jihadisti e gli islamisti che accettano di partecipare al processo.  La riconciliazione deve passare necessariamente per il ritorno del governo ora a Tobruk - una implicita richiesta di protezione all’Egitto - in una sede più centrale. 

Sulla carta sono già emerse diverse ipotesi di intervento. Sarebbe necessario, però, che qualunque intervento ipotizzato parta dalla considerazione appena fatta. Ma ve n’è una seconda altrettanto importante. L’obiettivo di qualsiasi intervento militare non può essere quello di appoggiare una parte a discapito dell’altra, ma piuttosto quello di garantire un accordo politico neutrale, ciò diminuirebbe anche i rischi di un fallimento di qualsiasi missione e di trasformare le forze della missione in bersaglio.  L’ipotesi di “boots on the ground”  andrebbe perseguita prima a livello diplomatico, con un accordo tra le varie parti e con una comunità internazionale e regionale coesa. Interventi di diverso tipo solleciterebbero sentimenti anti-occidentali senza alcuna sicurezza di stabilizzare il paese (recenti casi Afghanistan e Iraq lo dimostrano)

In questo caos del paese resta sempre comunque il problema della presenza di una forza dichiaratamente jihadista. Ansar al-Sharia deve essere certamente contenuta militarmente, ma allo stesso tempo bisogna impedire la conquista di spazio politico da parte loro. Ansar al-Sharia e le varie milizie alleate sembrano guardare con ammirazione all’Isis. Molti libici hanno combattuto e combattono sul fronte siriano-iracheno. La Libia per percentuale di popolazione è uno dei paese che ha offerto il maggior numero di mujaheddin e questo ha favorito – dopo il ritorno in patria di questi – i legami tra il mondo radicale libico e quello di Siria e Iraq (più di 500 libici sono ancora presenti su questo fronte). Ansar al Sharia tuttavia non è solamente un gruppo terroristico ma sembra operare anche attraverso la conquista del consenso della cittadinanza, attraverso la “dawa” ossia opere caritatevoli e controllo territoriale in sostituzione dello stato, del welfare state e delle istituzioni libiche. È lì che la battaglia è più complessa e difficile. 

Il generale Haftar si è posto l’obiettivo del contenimento militare. Ciò ha permesso alla comunità internazionale e alle forze occidentali di non intervenire direttamente. Tuttavia vi sono sempre dei pericoli nel lasciar fare ad altri quello che dovresti far tu. Innanzitutto Haftar ha dimostrato di non voler distinguere nel campo degli islamisti dichiarando di volerli “liminare tutti” e questo ha favorito la convergenza tattica, di cui dicevamo, tra milizie radicali e forze politiche islamiste di vario tipo. Inoltre si corre il rischio di creare un nuovo regime autocratico e di mettere il paese in mano a nuovi leader militari privi del carisma e della base di consenso sulla quale perlomeno godevano quelli del passato. 

I recenti incontri a livello internazionale hanno dimostrato invece che la comunità internazionale ha interesse a non far collassare la Libia. Nessuno può permetterselo. Tuttavia la soluzione che deve essere trovata in Libia, per una sua stabilità non solamente momentanea ma più duratura deve essere la più inclusiva possibile. Questa è la strada più difficile ma l’unica che potrà portare a risultati. La comunità internazionale dovrebbe favorire di fatto la creazione di un nuovo patto sociale tra le componenti libiche, un vero e proprio tentativo di “nation building” di cui i primi passi vediamo solo ora, sperando che non sia troppo tardi.

Arturo Varvelli, ISPI Research Fellow

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Libia isis Fratellanza Musulmana Stati Uniti Siria stato islamico Haftar intervento militare jihadisti
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Autori

Arturo Varvelli
Senior Research Fellow

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