Immigrazione e Mediterraneo: uno sguardo di insieme
Nel corso degli ultimi anni, con due ondate maggiori in concomitanza dello scoppio delle cosiddette Primavere arabe a partire dal 2011 e, successivamente, nell’estate del 2015 con l’arrivo di più di un milione di richiedenti asilo nei paesi dell’Unione europea, quest’ultima si è nuovamente trovata in maniera sempre più pressante a confrontarsi con il tema dell’immigrazione. Come effetto delle molteplici crisi politiche e di sicurezza che si consumano nell’area dell’Africa subsahariana e nel Nord Africa, nonché di fattori strutturali come povertà, mancanza di prospettive economiche e occupazionali nei paesi di origine e non ultimi gli effetti dei cambiamenti climatici, centinaia di migliaia di persone hanno raggiunto l’Europa passando soprattutto per il Mediterraneo. Soltanto tra il 2014 e l’agosto del 2018, circa 650.000 persone sono arrivate via mare nella sola Italia1, contribuendo a creare un dibattito politico e nell’opinione pubblica circa la gestione dei flussi migratori e l’effettiva capacità della società e delle istituzioni di far fronte a quella che da alcuni viene percepita e presentata come un’emergenza. Tale dibattito, innanzitutto, riguarda la natura stessa delle persone che arrivano (richiedenti asilo, rifugiati, cosiddetti migranti economici), riportando l’attenzione sulla distinzione tra immigrati regolari e irregolari e sulla possibilità di integrare i primi e rimpatriare i secondi. In seconda battuta, il dibattito si è concentrato anche sulla politica comunitaria, nella misura in cui si ritiene opportuno che, per far fronte alla questione dell’immigrazione dall’Africa all’Europa, siano tutte le istituzioni dell’UE e i singoli governi degli stati membri a trovare soluzioni condivise per ottenere una risposta più efficace, duratura e soprattutto che possa prendere in considerazione una più equa redistribuzione delle responsabilità. Ciò contribuirebbe ad alleviare i costi (in termini sia economici sia politici e sociali) dei paesi maggiormente esposti al fenomeno, in quanto geograficamente collocati lungo il naturale confine tra il Mediterraneo e l’Unione europea, con particolare riferimento proprio all’Italia stessa, alla Grecia e alla Spagna, che nel 2018 è tornata ad essere il primo paese di approdo dell’immigrazione dall’Africa attraverso il Mediterraneo2. La mancanza di disponibilità e volontà politica di alcuni paesi – con particolare riferimento a quelli del cosiddetto Gruppo di Visegrad e all’Austria – nei confronti di una maggiore redistribuzione dei richiedenti asilo tra gli stati membri dell’Unione europea3, insieme alla pressione delle opinioni pubbliche che vedono la questione migratoria sempre più connessa alla sicurezza, ha portato l’UE e alcuni singoli governi a cercare accordi con i paesi di origine e transito, volti a controllare in maniera più rigorosa i confini e a bloccare le partenze4.
In questo modo, si è arrivati a un processo di esternalizzazione della gestione del fenomeno migratorio e delle stesse frontiere, che ha prodotto indubbiamente alcuni risultati tangibili in termini di calo degli arrivi, ma d’altro canto ha contribuito a rendere i viaggi dei migranti ancora più pericolosi e soggetti a maggiori rischi. Inoltre, tale strategia si basa sul sostegno dei governi dei paesi di origine e transito, i quali però non condividono le stesse priorità dei paesi europei. Ciò rischia, nel lungo termine di creare situazioni potenzialmente ancora più instabili, mentre le questioni alla radice dei fenomeni migratori, così come la stessa lotta ai trafficanti di uomini, cadono in secondo piano. Una delle proposte politiche portate avanti con più insistenza dai leader europei è stata quella di istituire dei centri di accoglienza temporanei (i cosiddetti hotspot) in alcuni paesi del Nord Africa, per poter meglio gestire le domande di asilo prima che i richiedenti arrivino in Europa. Tale proposta, tuttavia, appare poco perseguibile, sia per il rifiuto stesso dei paesi eventualmente coinvolti sia per la mancanza delle condizioni strutturali per poter procedere a una simile soluzione. Ciò che sembra mancare è nello specifico un approccio che prenda in considerazione anche le priorità, le esigenze e le condizioni dei paesi di origine e di transito, in modo tale da poter elaborare proposte politiche che possano essere vantaggiose per entrambe le parti.
La ricerca di un approccio condiviso per la soluzione del fenomeno migratorio, infatti, non può prescindere dalla realtà dei paesi terzi con cui si vuole collaborare. Questo approfondimento nasce da tali considerazioni e mira a fornire un quadro delle politiche migratorie e di accoglienza dei paesi dell’area del Medio Oriente e Nord Africa. Emergerà una fotografia molto complessa, con problematiche e sfide differenti a seconda del contesto nazionale di riferimento. Ad esempio, la crisi dei rifugiati siriani, che in parte interessa anche l’Unione europea, è molto più pressante in termini numerici nei tre paesi confinanti con la Siria: Turchia, Libano e Giordania, che insieme ospitano sui propri territori circa 5 milioni e mezzo di rifugiati siriani, a fronte di circa 300.000 richieste di asilo in tutti i 28 paesi dell’UE insieme5. Ciò comporta dei costi altissimi di gestione e dei problemi di integrazione, soprattutto in quei paesi – Libano in primis – in cui il numero dei rifugiati presenti sul territorio è molto alto rispetto a quello della popolazione. Per quanto concerne i paesi del Nord Africa, diretti partner dei paesi europei nella gestione dell’immigrazione via Mediterraneo, si riscontrano profili molto diversi tra di loro che, di conseguenza, portano a problematiche di gestione del fenomeno differenti da paese a paese. Si possono distinguere i paesi essenzialmente di origine, come la Tunisia, da quelli di transito e destinazione, come è ormai il caso del Marocco, dell’Algeria, dell’Egitto e della Libia. Quest’ultima, per le particolari condizioni di insicurezza e instabilità politica che la contraddistinguono, rappresenta un unicum nella regione, ma allo stesso tempo è una pedina fondamentale delle politiche di gestione e controllo dell’immigrazione verso l’Europa e l’Italia, in quanto fino a pochissimi mesi fa costituiva il maggior porto di partenza dei migranti di tutta l’Africa subsahariana e, ancora oggi, rimane uno degli snodi principali delle rotte migratorie verso il Mediterraneo e presenta evidenti contraddizioni in termini di sicurezza. La particolare situazione di fragilità istituzionale della Libia non rende quest’ultima un partner affidabile in termini di controllo e gestione dei flussi migratori e richiede un approccio che sia in maniera prioritaria volto alla stabilizzazione del paese e alla fine del conflitto, riacuitosi nel mese di settembre 2018.
Una questione non solo europea
L’approfondimento tratta in maniera distinta due fenomeni legati all’immigrazione: quello dell’immigrazione illegale e quello delle politiche di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Nel contesto dell’area mediorientale e nordafricana, è possibile distinguere in maniera abbastanza netta, per ragioni di posizione geografica, le due questioni in funzione della macro-area di riferimento. I paesi del Medio Oriente propriamente detto, in particolare Turchia, Giordania e Libano, sono maggiormente interessati dalla questione relativa ai rifugiati. In primo luogo, e stando all’attualità, si parla soprattutto di rifugiati in riferimento ai siriani che sono scappati dal conflitto che dal 2011 interessa il loro paese, ma non si deve dimenticare che in alcuni casi, soprattutto in Giordania e Libano, tale questione si somma a quella dei rifugiati palestinesi e iracheni che, nei decenni passati, hanno cercato protezione in tali paesi6. Nell’affrontare il tema dell’immigrazione in Nord Africa, invece, la questione più pressante è sicuramente quella dell’immigrazione irregolare e della gestione dei flussi migratori in uscita verso i paesi europei, oltre a quella dei rimpatri. Quasi tutti i paesi della sponda sud del Mediterraneo hanno, infatti, un numero rilevante di immigrati entrati irregolarmente all’interno dei propri territori dai paesi dell’Africa subsahariana. Fino a pochi anni fa, alcuni di questi paesi, come il Marocco, erano considerati soprattutto dei paesi di transito verso l’Europa, mentre altri, come la Libia, erano soprattutto dei paesi di destinazione, in cui era possibile trovare opportunità lavorative e sperare di essere integrati. Le crisi politico-istituzionali e di sicurezza che sono seguite alla ridefinizione degli equilibri regionali dopo gli eventi del 2011, così come gli effetti delle politiche di chiusura e controllo delle frontiere da parte dei paesi europei, hanno in parte cambiato tale quadro. Nel nuovo contesto, paesi come il Marocco sono diventati sempre più paesi non solo di transito, ma anche di destinazione, mentre la Libia, in preda a un conflitto civile che perdura da anni, è vista ormai come un paese di solo transito verso l’Europa, per via dell’impossibilità di trovarvi un futuro e, allo stesso tempo, dell’instaurazione di veri e propri network di traffici di migranti7. A partire dall’autunno del 2017, anche la Tunisia è tornata ad essere un paese importante per le rotte migratorie verso l’Italia, ma in questo caso si tratta soprattutto di un paese di origine, più che di transito. Ciò rispecchia la crisi di legittimità delle nuove istituzioni post-rivoluzionarie e le difficoltà che il paese continua a vivere in termini di condizioni socio-economiche e di sviluppo. L’Algeria, come la Libia, si trova al centro delle rotte che, dal Niger e dal Mali, continuano verso il Marocco o la stessa Libia per poi essere destinate al passaggio in Europa tramite il Mediterraneo. Peraltro, anche il governo di Algeri vive le difficoltà che molti governi regionali ed europei sperimentano in termini di integrazione della popolazione straniera presente sul proprio territorio, così come di necessità di maggiori controlli alle frontiere che regolino i flussi in entrata e in uscita.
L’approccio europeo alla cooperazione con questi paesi è stato spesso guidato quasi esclusivamente dalle priorità dei paesi europei in tema di controllo e gestione dell’immigrazione. In tale contesto, gli accordi regionali e bilaterali che, nel corso degli ultimi anni, si sono stretti con i paesi della sponda sud del Mediterraneo, sono stati volti soprattutto a limitare il numero di sbarchi sulle coste europee (oltre all’Italia, anche la Grecia e la Spagna sono fortemente interessate dal fenomeno dell’immigrazione irregolare attraverso il Mediterraneo). Tale approccio prende in considerazione soprattutto i cosiddetti pull factors dell’immigrazione, vale a dire tutti quei fattori che attraggono gli immigrati verso un altro paese, come il fatto che vi siano migliori condizioni economiche, sociali e di sicurezza e che si tratti di paesi potenzialmente ricettivi. Proprio per disincentivare la scelta del migrante basata su tali fattori, le politiche europee si sono concentrate sulla chiusura dei confini e sul controllo delle frontiere, arrivando anche a esternalizzare i compiti di gestione, tramite accordi con i paesi di transito e di origine. A fronte di tale strategia, però, andrebbero tenuti in considerazione anche i cosiddetti push factors, cioè l’insieme di tutti quei fattori che fanno sì che il migrante decida di lasciare il proprio paese di origine o di non fermarsi nei paesi di transito, ma voler continuare il proprio viaggio verso l’Europa, spesso tramite il passaggio nel Mediterraneo. Questi fattori possono essere di natura socio-economica (povertà, disoccupazione, limitate prospettive nel proprio paese di origine per via di una gestione clientelare e centralizzata dell’economia, disuguaglianze regionali), politica (governance insufficiente, marginalizzazione di determinati gruppi sociali o politici, repressione), di sicurezza (terrorismo, conflitti civili o regionali) o ambientale (effetti dei cambiamenti climatici come desertificazione, fenomeni straordinari come alluvioni o siccità, che costringono le persone a spostarsi dalla propria area di origine)8. La consapevolezza dei fattori che concorrono a far sì che le persone decidano di spostarsi, infatti, potrebbe portare all’elaborazione di politiche di cooperazione con i paesi di origine e di transito, volte ad avere non solo un impatto sul blocco degli arrivi in Europa, ma anche degli effetti positivi sulle cause stesse dell’emigrazione, producendo nel lungo periodo una situazione che possa essere vantaggiosa per tutti gli attori in gioco. Inoltre, un altro fattore di cruciale importanza nell’affrontare il tema dell’immigrazione e delle relazioni con i paesi di origine e di transito verso l’Europa, è quello della gestione dell’immigrazione in quegli stessi paesi. Se, infatti, uno degli obiettivi principali della cooperazione con i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo in materia di immigrazione è quello di una migliore gestione del fenomeno, è indispensabile un’analisi delle politiche migratorie già in atto in quei paesi e della situazione che questi stessi paesi vivono in relazione all’immigrazione regolare e irregolare e all’accoglienza dei rifugiati. Tale visione aiuterà a comprendere meglio le necessità dei partner della sponda sud del Mediterraneo e le criticità che vivono nella gestione dell’immigrazione all’interno del proprio territorio.
Marocco: un modello da rivedere?
Uno dei partner con cui i paesi dell’Unione europea, tra cui la stessa Italia e soprattutto la Spagna, hanno una lunga storia di cooperazione bilaterale in materia di immigrazione è il Marocco9. I marocchini che vivono all’estero sono quasi 3,5 milioni, di cui l’87% si trova in paesi europei, con Francia (più del 30%) e Spagna (25%) come principali paesi di destinazione. Per anni, dunque, il paese è stato un paese di origine dell’immigrazione e, sulla base di tale considerazione, gli accordi raggiunti con i paesi europei – in particolare la Spagna – nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, erano mirati soprattutto a limitare il numero di persone che entravano in Europa. Una delle caratteristiche dell’immigrazione per i paesi di origine, però, è che questa è in grado di produrre ricchezza per il paese stesso, sotto forma di rimesse da parte degli emigrati all’estero. Secondo gli ultimi dati resi disponibili dalla Banca mondiale, ancora nel 2017 il Marocco riceveva più di 7 miliardi di dollari in rimesse dall’estero, corrispondenti a più del 7% del Pil nazionale. Nella misura in cui il governo marocchino vedeva le rimesse come un aiuto che si sostituiva a una redistribuzione della ricchezza interna che esso stesso non era in grado di sostenere a livelli adeguati per tutti, gli incentivi per provvedere al rimpatrio degli immigrati o per limitare il numero di persone che cercavano opportunità all’estero, non erano abbastanza alti. La situazione per il Marocco è però cominciata gradualmente a cambiare con l’arrivo nel paese di nuovi flussi di immigrati dai paesi dell’Africa occidentale e la progressiva chiusura delle frontiere spagnole e, in generale europee. Il Marocco è così divenuto sempre di più, oltre che un paese di origine, un paese di transito, ma anche di destinazione dell’immigrazione. A partire dall’inizio degli anni Duemila, sempre più persone che arrivavano in Marocco con l’intenzione di proseguire il proprio viaggio verso le coste spagnole, si sono trovate impossibilitate a lasciare il paese, che allo stesso tempo si era peraltro sviluppato abbastanza da poter essere considerato per quei migranti un paese in cui restare e cercare opportunità. Se nel 1990 gli immigrati residenti in Marocco erano meno di 50.000, oggi sono raddoppiati a più di 100.000, mentre si stima che gli immigrati irregolari presenti sul territorio marocchino siano tra i 30.000 a i 40.000, provenienti soprattutto da Camerun, Mali, Nigeria, Senegal e Costa d’Avorio.
Come conseguenza di tali cambiamenti, il Marocco appare oggi più interessato alla cooperazione con l’Europa in termini di controllo delle frontiere e gestione dell’immigrazione, in quanto vi sono maggiori interessi comuni nella gestione del fenomeno10. Nel 2003 il governo di Rabat è stato il primo paese della regione a emanare una legge sull’immigrazione, nel tentativo di regolarizzarla. Nel 2013, il Marocco ha provveduto a regolarizzare 25.000 persone residenti irregolarmente nel paese11, mentre un altro provvedimento simile sarebbe dovuto scattare già nel 2017, ma ancora non è stato messo in atto, anche per l’opposizione di parte dell’opinione pubblica. Le difficili condizioni strutturali del paese, soprattutto in alcune aree più periferiche, con tassi di povertà e disoccupazione molto alti, spingono all’eccesso il malessere della popolazione locale che, in alcuni casi, tende a percepire la presenza di immigrati come una competizione diretta per l’accesso al mercato del lavoro e alla redistribuzione della ricchezza. In tale contesto, diverse organizzazioni non governative hanno denunciato il manifestarsi di episodi di razzismo da parte della popolazione locale contro le comunità di immigrati provenienti dall’Africa subsahariana e l’utilizzo di metodi violenti da parte delle forze di polizia nei confronti di queste persone12. La crescente ostilità da parte della popolazione locale nei confronti degli immigrati dell’Africa occidentale si aggiunge alla necessità da parte delle autorità di bloccare nuovamente i flussi in uscita e di respingere verso i paesi terzi i migranti, nel momento in cui la rotta dal Marocco verso la Spagna è tornata dopo anni ad essere quella più utilizzata a scapito di quella del Mediterraneo centrale che dalla Libia punta verso l’Italia. Come effetto degli accordi dell’Italia e dell’UE con le autorità libiche volti a bloccare le partenze dalla Libia, le rotte si sono gradualmente spostate sempre più dal Niger verso l’Algeria e da qui, tramite il punto di passaggio di Oujda, verso il Marocco. Al 5 settembre del 2018, le persone che hanno raggiunto la Spagna seguendo questa rotta nel corso del 2018 sono più di 35.000, a fronte di poco più di 20.000 arrivi in Italia. La riapertura della rotta marocchina sta spingendo le autorità a ricorrere a espulsioni forzate, mentre il Marocco sta cercando nuovi accordi con l’Unione europea per la gestione dei flussi. Uno dei punti più spinosi degli accordi con la Spagna riguarda la possibilità di rimpatriare non solo i cittadini marocchini (quasi 2.600 quelli arrivati in Spagna nel corso dei primi 8 mesi del 2018), ma anche quelli di paesi terzi che sono transitati per il territorio marocchino. Le espulsioni che, successivamente, il Marocco effettua verso i paesi di origine dei migranti africani rischiano di incrinare le relazioni di Rabat con quegli stessi paesi, in un momento in cui il Marocco sta facendo del proprio attivismo nell’area africana occidentale uno dei punti cardine della propria politica estera13. D’altro canto, l’eventualità che il Marocco possa entrare a far parte dell’Ecowas (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale), una delle più importanti organizzazioni regionali africane, da un lato sarebbe il coronamento della politica regionale marocchina, ma dall’altro potrebbe potenzialmente costituire una criticità per il Marocco sul tema dell’immigrazione. All’interno dei paesi dell’Ecowas, infatti, vige la libertà di movimento delle persone14 e, qualora il Marocco entrasse a far parte dell’organizzazione, gli immigrati che attualmente vengono catalogati come irregolari potrebbero entrare regolarmente nel paese, costituendo un fattore attrattivo che metterebbe in difficoltà il Marocco nei confronti dei partner europei. Questo è solo un esempio di come le politiche migratorie siano spesso legate a doppio filo con la politica estera di un paese e di come gli effetti delle prime sulle relazioni di un paese con i propri vicini siano sempre da tenere in considerazione.
Algeria: un trend preoccupante
Come il Marocco, l’Algeria è gradualmente passata, nel corso degli ultimi decenni, da paese di sola origine a paese di transito e destinazione dei migranti. Le rotte che dal Niger – vero snodo dell’emigrazione dall’Africa occidentale verso il Nord Africa e il Mediterraneo – vanno verso il Nord, sono infatti due: quella verso la Libia e quella verso l’Algeria, tramite Assamaka e, successivamente, Tamanrasset. I maggiori controlli che, a partire dal 2017, hanno interessato il confine tra Niger e Libia per diminuire il flusso di entrata in Libia da un lato e, dall’altro, per arginare il precipitare della situazione in Libia, hanno fatto sì che la rotta verso l’Algeria fosse sempre più utilizzata, come confermato dai dati comparati dei due osservatori di monitoraggio in Niger, quello di Seguedine (verso la Libia) e Arlit (verso l’Algeria)15. Come conseguenza di tali fattori, l’immigrazione di tipo irregolare in Algeria è aumentata esponenzialmente nel corso dell’ultimo decennio e, ad oggi, si stima che nel paese vi siano fino a 100.000 immigrati irregolari provenienti dall’Africa occidentale. A differenza del Marocco, il governo algerino non è però riuscito a regolarizzare quote di questi immigrati, per via della forte ostilità della popolazione locale. Nel luglio del 2017 il governo ha effettivamente annunciato un piano di regolarizzazione, ma vi sono state diverse manifestazioni contro tale decisione, al punto che Algeri è tornata sui propri passi. Il problema dell’immigrazione irregolare è molto sentito e si registra un preoccupante trend di razzismo da parte della popolazione, con diversi episodi di violenze contro immigrati dell’Africa subsahariana e di emarginazione. Per far fronte a tale situazione, il governo ha iniziato nel 2017 una campagna di espulsioni, contribuendo in parte ad alimentare il clima di xenofobia e intolleranza e spesso additando gli immigrati come responsabili dell’innalzamento dei tassi di criminalità e dei traffici di droga nel paese. Secondo quanto denunciato da diverse fonti locali e dalle maggiori organizzazioni internazionali che operano in Algeria, come l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Iom) e Human Rights Watch, le autorità algerine hanno fatto più volte ricorso a vere e proprie “deportazioni” forzate di massa16. Gli immigrati, soprattutto provenienti da paesi come Burkina Faso, Mali, Ciad, Niger e Guinea vengono portati con degli autobus fino al confine desertico con il Mali o il Niger e lì vengono abbandonati. Negli ultimi due anni sarebbero almeno 27.000 le persone che sono state espulse attraverso questi metodi, contribuendo a provocare delle crisi diplomatiche con i paesi di origine, come accaduto con la Guinea17. L’Algeria, infatti, aveva firmato nel 2014 un accordo sui rimpatri con il governo del Niger, ma questo riguardava solamente i cittadini nigerini e non di paesi terzi che erano transitati per il Niger. La questione delle espulsioni di massa dall’Algeria riguarda in maniera diretta anche le stesse istituzioni europee, le quali da almeno tre anni stanno cercando di agire a monte dei flussi migratori, ad esempio proprio tramite il sostegno al governo del Niger. La consapevolezza delle dinamiche che avvengono al confine tra questo paese e l’Algeria dovrebbe spingere a intraprendere politiche mirate anche al rispetto dei diritti umani e a una migliore gestione del fenomeno migratorio da parte dei paesi nordafricani, che si trovano sulle rotte che dall’Africa portano verso il Mediterraneo.
Tunisia: di nuovo paese di origine
Dopo un netto calo degli arrivi dalla Tunisia verso l’Italia, ridotti a poche centinaia tra il 2012 e il 2017, da un anno a questa parte si sta assistendo alla ripresa degli arrivi attraverso la rotta tunisina. Al 5 settembre 2018, sono stati più di 4.000 i tunisini sbarcati sulle coste italiane dall’inizio dell’anno, rappresentando la prima nazionalità di arrivo dei migranti in Italia quest’anno18. L’Italia, del resto, già dagli anni Novanta ha stretto con il governo di Tunisi diversi accordi mirati alla gestione dei flussi migratori e ai rimpatri e, con la nuova ondata di arrivi, i rapporti bilaterali si sono nuovamente concentrati sulla questione dell’immigrazione, con particolare attenzione al supporto italiano (e in parte europeo) alla guardia costiera tunisina, volto ad ottenere un maggiore controllo delle frontiere marittime tra Tunisia e Italia. A differenza di quanto si potesse pensare in un primo momento, però, i flussi di migranti in arrivo dalla Tunisia non rappresentano la diretta conseguenza della chiusura della rotta libica. Se, infatti, la quasi totalità delle persone che sbarcano in Italia partendo dalla Libia sono per lo più provenienti da paesi dell’Africa subsahariana (con l’eccezione dei migranti provenienti dal Bangladesh), i dati ufficiali tunisini dicono che il 91% dei migranti che partono dalla Tunisia sono cittadini tunisini19. Ciò vuol dire che la Tunisia non è, come nel caso della Libia e in parte del Marocco e dell’Algeria, un paese di transito, né di destinazione dell’immigrazione, ma essenzialmente un paese di origine, sebbene vi sia anche una sporadica presenza di immigrati provenienti dall’Africa subsahariana.
Tale evidenza genera dunque alcune considerazioni sulle motivazioni alla base dell’immigrazione dalla Tunisia20. Anche in questo caso, è molto importante individuare e analizzare i cosiddetti push factors che spingono così tanti tunisini a lasciare il proprio paese per andare in Italia, spesso con l’obiettivo di raggiungere poi altri paesi dell’Unione europea. Alla base dell’attuale ondata di emigrazione dalla Tunisia, vi è una situazione molto critica dal punto di vista socio-economico, nonostante gli innegabili progressi che il paese ha compiuto in campo politico e istituzionale all’indomani della caduta del regime di Ben Ali, che hanno portato la Tunisia a intraprendere un processo di democratizzazione. La disoccupazione è ancora la più alta di tutta la regione nordafricana (quasi al 16%), mentre la disoccupazione giovanile è superiore al 35%. Tale situazione peggiora notevolmente nelle regioni del centro e dell’occidente del paese, in cui si toccano livelli di disoccupazione e povertà anche doppi rispetto alla media nazionale. A fronte di tale situazione, il governo fa fatica a individuare politiche di sviluppo economico e adeguamento del mercato del lavoro che possano in breve tempo dare dei risultati tangibili, soprattutto in un momento in cui le finanze del paese sono soggette a un sistema di controllo e vincoli da parte dei maggiori creditori internazionali come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale21. Il perdurare di una simile crisi economica – acuita dal tracollo del settore turistico tra il 2015 e il 2016 a seguito degli attentati che hanno colpito Tunisi e Sousse, provocando la morte di decine di turisti stranieri – ha portato sempre più tunisini a spostarsi dapprima dalle aree rurali verso i grandi centri urbani e, in un secondo momento, a tentare la via del Mediterraneo.
Il fatto che la Tunisia sia un paese soprattutto di origine influenza anche le politiche migratorie dei paesi europei nei suoi confronti. A differenza del Marocco o della Libia, ad esempio, i rimpatri possono essere eseguiti con maggiore efficienza, dal momento che non si tratta di persone che arrivano da paesi terzi. Allo stesso tempo, però, gli incentivi saranno sicuramente minori, dal momento che attualmente le rimesse dei migranti tunisini all’estero ammontano a più di 2 miliardi di dollari, vale a dire circa il 5% del Pil nazionale22. A questo proposito, anche nel caso della Tunisia, le autorità locali cercano infatti degli accordi che possano portare nel medio-lungo periodo a un cambiamento strutturale delle stesse condizioni che oggi portano migliaia di giovani a emigrare. La difficile situazione economica del paese, del resto, è anche alla base del rifiuto della Tunisia a ospitare all’interno del proprio territorio i cosiddetti hotspot per l’identificazione dei migranti e richiedenti asilo in Europa. A tal proposito, occorre sottolineare che la Tunisia stessa non sia attualmente dotata di norme giuridiche volte alla gestione dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Pertanto, le politiche europee potrebbero essere indirizzate anche verso una maggiore capacity building, non soltanto in materia di controllo e pattugliamento delle frontiere, ma di sviluppo di adeguate strategie di accoglienza e protezione dei richiedenti asilo. Il caso della Tunisia è emblematico in questo senso, in quanto si tratta del paese più stabile – nonostante le difficoltà interne e le innegabili sfide alla sicurezza che giungono dal processo di radicalizzazione di molti giovani – della regione, ma allo stesso tempo non presenta gli oggettivi prerequisiti per poter essere un partner sicuro e affidabile in termini di gestione dell’immigrazione proveniente dall’Africa subsahariana.
La Turchia e i rifugiati siriani: tra integrazione e sfide interne
A differenza dei paesi nordafricani, la Turchia ospita sul proprio territorio la maggior parte dei siriani rifugiati all’estero dopo il 2011. Oggi se ne contano ufficialmente più di 3,5 milioni, su un totale complessivo di 5,6 milioni di rifugiati siriani, che si aggiungono al mezzo milione di richiedenti asilo provenienti da altri paesi. Ciò fa della Turchia il primo pese al mondo per numero di rifugiati residenti sul proprio territorio23. Dei siriani presenti in Turchia, la quasi totalità (il 95%) vive nei centri urbani e non nei campi profughi. Nella sola Istanbul vivono ormai circa 560.000 siriani, mentre si registrano addirittura casi, come quello della cittadina di Kilis, proprio al confine con la Siria, in cui i rifugiati siriani hanno ormai superato il numero dei residenti turchi24. Le problematiche che il governo turco deve superare per far fronte alla questione dei rifugiati siriani sono svariate e di diverso tipo. La presenza di così tanti profughi che cercano protezione sul proprio territorio richiede un notevole sforzo economico da parte dello stato ospitante, al punto che Ankara si è spesso rivolta anche all’estero per cercare supporto nella gestione di una crisi che non ha precedenti in quanto a dimensioni numeriche. Lo stesso accordo concluso nel marzo del 2016 con l’UE, volto al controllo dell’immigrazione illegale verso l’Europa, prevede un finanziamento di 3 miliardi di euro da parte delle istituzioni europee alla Turchia, proprio per la gestione dell’emergenza legata alla presenza dei rifugiati siriani nel paese.
Dal punto di vista socio-economico, le due principali sfide della gestione e, possibilmente, dell’integrazione dei cittadini siriani in Turchia, riguardano l’accesso all’educazione e al mercato del lavoro. Per quanto riguarda il primo aspetto, c’è da tenere in considerazione il fatto che, a differenza di altri paesi arabi dell’area mediorientale che ospitano rifugiati siriani, in Turchia queste persone si trovano di fronte alla barriera linguistica, in quanto non si parla l’arabo. Ciò rende più difficoltoso l’inserimento dei bambini nei programmi scolastici ordinari e, allo stesso tempo, richiede un investimento maggiore in termini di corsi di lingua per i siriani. Anche come conseguenza di tale gap linguistico, sono più di un terzo i bambini siriani attualmente residenti in Turchia che rimangono fuori dalle scuole e non hanno accesso all’istruzione25. Il lavoro costituisce l’altro grande ostacolo. Da un lato, soprattutto a Istanbul, si registra una notevole attività imprenditoriale che in parte è stata anche incentivata dalle istituzioni e che ha portato alla creazione di centinaia di piccole e medie imprese gestite da siriani. Dall’altro lato, però, lo stato ha accordato fino ad adesso soltanto 20.000 permessi di lavoro per cittadini siriani e si calcola che siano almeno un milione e mezzo i siriani che lavorano nell’economia informale o sommersa26. Quest’ultimo fattore costituisce anche un elemento di tensione tra la popolazione locale e le comunità siriane in Turchia. Nel paese, infatti, si calcola che in totale un terzo dei posti di lavoro siano proprio nel mercato dell’economia sommersa. Essendo questa meno regolata, è più facile che proprio in questo settore la forza lavoro siriana venga percepita come fortemente competitiva con quella locale, dal momento che costa meno, in quanto vi è una minore aspettativa di guadagno. È dunque in tale contesto che si crea la percezione dei siriani come “usurpatori” dei diritti dei locali. Quanto più tali dinamiche avvengono in contesti in cui vi sono settori di società già di per sé emarginate dallo stato (in quanto più povere o residenti nelle aree più periferiche del paese), tanto più tale senso di competizione si acuisce e rischia di generare dei conflitti sociali con ripercussioni potenzialmente drammatiche.
Il problema dei rapporti tra siriani e comunità locali è l’altra sfida che il governo turco si trova ad affrontare. Da un lato, infatti, le autorità turche sono alla ricerca di soluzioni e strategie di lungo termine che possano aiutare l’inserimento graduale dei cittadini siriani all’interno del tessuto socio-economico del paese. D’altro canto, però, le stesse istituzioni devono tenere in considerazione la percezione di parte della popolazione locale, che vede la presenza dei siriani in Turchia come un fardello troppo grande da poter essere sopportato sul lungo periodo, e che ritiene gli stessi rifugiati siriani responsabili della propria condizione socio-economica critica e dell’aumento dei prezzi e della disoccupazione in generale all’interno del paese. Episodi di violenza e tensione che sono sfociati in scontri tra la popolazione locale e le comunità siriane hanno fino a oggi provocato in totale la morte di almeno 35 persone, di cui 24 siriani, con le tensioni maggiori che si registrano nelle aree periferiche dei grandi centri urbani27.
Sia nelle grandi città che nei centri più piccoli, un ostacolo ai progetti di inclusione e integrazione dei siriani è inoltre di tipo burocratico e nasce dalla struttura fortemente centralizzata dello stato turco. Molte attività come quelle del supporto sociale o dei corsi di lingua, infatti, potrebbero essere svolte sotto la direzione delle stesse municipalità, ma per legge tali istituzioni locali non possono fornire servizi di alcun tipo a persone che non siano cittadini turchi residenti in quel distretto. Ciò vuol dire che le istituzioni locali non hanno i fondi sufficienti, né a volte lo stesso mandato legale, per poter finanziare e portare avanti attività volte all’inserimento dei rifugiati all’interno della società. Anche questo è un aspetto che concorre alla difficile integrazione dei cittadini siriani in Turchia, che potrebbe essere parzialmente risolto tramite un processo di decentralizzazione dello stato, che però al momento non sembra essere una priorità del governo.
Libano: la più alta concentrazione di rifugiati al mondo
Le criticità che affronta la Turchia si ritrovano, in maniera quasi esponenziale, in Libano. Il paese ospita, secondo gli ultimi dati ufficiali forniti dall’Unhcr, quasi un milione di rifugiati siriani, cui però si aggiunge circa mezzo milione di siriani che, si stima, siano presenti irregolarmente nel paese. Con queste cifre, il Libano è il paese con il più alto tasso di rifugiati al mondo: circa una persona su cinque è un rifugiato28. In Libano, i problemi principali legati alla gestione della questione dei rifugiati nascono proprio dalla presenza di troppi profughi per una popolazione locale così piccola (circa 6 milioni di persone), il che a sua volta porta a forti tensioni sociali e politiche a livello interno. Il paese, del resto, ha avuto nei decenni passati dei problemi di sicurezza legati alla presenza di una vastissima comunità di rifugiati palestinesi nei campi profughi. Nel timore di una permanenza stabile sul territorio libanese dei rifugiati siriani il governo di Beirut ha evitato la costruzione di campi profughi per evitare il ripetersi della situazione che si era presentata negli anni Settanta con i campi palestinesi. I siriani vivono dunque per la loro totalità all’interno dei centri urbani del Libano. Dopo le prime ondate di rifugiati tra il 2011 e il 2014, il governo libanese ha cominciato a imporre una serie di restrizioni per i siriani che entravano nel paese, nella speranza di ridurre il flusso in entrata, che cominciava a costituire un problema dal punto di vista gestionale29. Nel 2014 Beirut ha posto come condizioni per l’ingresso nel paese il pagamento di una tassa di circa 200 dollari, il possesso di un passaporto valido e di un documento firmato da un cittadino libanese che garantiva per la persona che intendeva entrare nel paese dalla Siria. Come conseguenza di tali restrizioni, nel 2015 si è registrato un calo dell’80% delle registrazioni ufficiali di siriani che entravano in Libano, anche se si stima che molte persone abbiano continuato a varcare il confine irregolarmente. Sempre nel 2015, infatti, la percentuale di siriani che erano in possesso di un valido permesso di residenza è scesa vertiginosamente, dal 91% al 39%, ma ciò non significa che i rifugiati siriani siano usciti dal paese, quanto piuttosto che le norme più rigide imposte dallo stato libanese abbiano prodotto una situazione di illegalità maggiore. Ciò, a sua volta, ha portato nel tempo a tensioni tra la popolazione locale e le comunità di siriani, alimentate anche da un clima politico avvelenato, in cui alcuni esponenti istituzionali hanno adottato in maniera strumentale una retorica xenofoba e razzista nei confronti dei siriani, che ha contribuito a rendere la situazione ancora più delicata30.
Come nel caso della Turchia e della Giordania, uno dei più grandi motivi di attrito sociale tra le comunità ospitanti e quella siriana è costituito dall’accesso al mercato del lavoro. Dal 2014, il ministero del Lavoro libanese ha limitato i settori nei quali è possibile impiegare lavoratori siriani, che sono quello delle costruzioni, dell’agricoltura e dei lavori domestici. Inoltre, a maggiore tutela dell’occupazione locale, il datore di lavoro che assume un cittadino siriano deve dimostrare di aver precedentemente provato ad assumere un cittadino libanese e, in ogni caso, deve impegnarsi a mantenere un rapporto di un impiegato siriano ogni dieci libanesi. Se da un lato tali restrizioni sono volte a proteggere i posti di lavoro dei libanesi e ad andare incontro ai timori delle comunità locali, dall’altro sempre più siriani trovano lavoro nel mercato nero e, in assenza di adeguate possibilità di ingresso nel mercato del lavoro, vivono in condizioni socio-economiche molto difficili. Secondo alcune stime, il 76% dei siriani residenti in Libano vive al di sotto della soglia di povertà nazionale, che per il Libano è fissata a 3,84 dollari al giorno31. Inoltre, a partire dal 2017 il governo libanese – e anche molte istituzioni locali – hanno cominciato a spingere molti siriani a lasciare il paese e tornare in Siria. Secondo Human Rights Watch, nel corso del 2017 sarebbero stati almeno 13.700 i siriani forzatamente espulsi dalle municipalità in cui vivevano32, mentre il governo di Beirut è entrato in polemica con l’Unhcr per la questione del ritorno dei rifugiati in Siria. Secondo il Libano, infatti, vi sarebbero le condizioni di sicurezza per il rientro di molte persone, mentre le Nazioni Unite ammoniscono circa il clima di generale insicurezza che ancora caratterizza gran parte della Siria, ancora coinvolta in una guerra civile. Per il Libano, la questione, oltre a essere di natura sociale e politica e a mettere a rischio le relazioni tra siriani e libanesi, è anche e soprattutto di natura economica. Secondo stime fornite dalle istituzioni libanesi, la crisi dei rifugiati siriani in Libano è costata fino ad ora circa 20 miliardi di dollari, equivalenti a circa il 42% dell’intero Pil nazionale, di cui solo la metà sarebbe stata finanziata dalle organizzazioni internazionali e dai donatori esterni, mentre il resto rimane ancora a carico dello stato libanese.
Giordania: sicurezza a rischio?
La Giordania ospita attualmente circa 700.000 rifugiati siriani, che si aggiungono ai più di 60.000 iracheni che hanno trovato rifugio nel paese a seguito della guerra del 2003 e ai circa due milioni di palestinesi che si sono stabiliti in Giordania nel corso dei decenni passati. A differenza del Libano, il governo giordano ha predisposto dei campi profughi per ospitare i siriani. In tali campi vive circa il 20% della popolazione siriana presente nel paese, soprattutto nel campo di Zaatari che, con i suoi circa 80.000 abitanti, è uno dei più grandi campi profughi in tutto il mondo33. Rispetto agli altri paesi dell’area, la Giordania è quello che più di tutti percepisce un problema legato alla sicurezza, essendo direttamente coinvolto nelle operazioni anti-terrorismo in Siria. L’attentato del 18 dicembre 2016 ad al-Karak, che ha causato la morte di 14 persone, ha contribuito a generare un clima di insicurezza nel paese, di cui la massiccia presenza di siriani è percepita come uno degli elementi concausanti34. È anche per questo motivo che, dal 2016, la Giordania ha chiuso a più riprese i propri confini con la Siria per limitare l’ingresso di nuovi rifugiati siriani all’interno del paese, ma di fatto causando anche crisi umanitarie per via delle migliaia di persone ammassate ai confini35.
A parte la percezione di insicurezza generata dal conflitto nella vicina Siria e dalla paura che tale guerra possa produrre effetti destabilizzanti anche dentro i propri confini, anche in Giordania non sono rari i casi di intolleranza e razzismo nei confronti delle comunità siriane che si sono stabilite nel paese. Come il Libano e la Turchia, anche la Giordania deve affrontare i problemi di gestione di un così alto numero di rifugiati, i cui costi non possono essere sostenuti interamente dallo stato e la cui sostenibilità è messa in discussione dalle stesse istituzioni nazionali, oltre che dalla popolazione. Anche in Giordania infatti la popolazione, soprattutto nelle aree settentrionali al confine con la Siria, percepisce la presenza dei siriani come causa primaria di alcuni malesseri sociali che si stanno manifestando con maggiore evidenza negli ultimi anni. Il tasso di disoccupazione, che nel 2011 si attestava al di sotto del 13%, ha superato il 18%, mentre sono sempre più frequenti i razionamenti di acqua, persino nell’area della capitale Amman. L’insieme di tali fattori ha spesso portato la popolazione giordana a puntare il dito contro la presenza dei rifugiati siriani, visti come un elemento di competizione, piuttosto che come una comunità da aiutare. La difficile gestione del fenomeno è aggravata dalla presenza di diverse migliaia (secondo alcune stime fino a 600.000 persone) di irregolari presenti sul territorio giordano, come conseguenza delle condizioni imposte dalle autorità per poter entrare nel paese. Infatti, vi sono diverse categorie che non potrebbero entrare legalmente in Giordania dalla Siria, vale a dire i rifugiati palestinesi e iracheni che erano già ospitati in Siria prima dello scoppio della guerra, gli uomini non sposati e arruolabili per il servizio militare e le persone senza documenti in corso di validità36. Dal momento che molte persone in fuga dal conflitto siriano ricadono in una di queste categorie, è facile immaginare come si sia sviluppato un network di accessi illegali all’interno del paese, che ha contribuito a rendere la gestione dell’immigrazione siriana ancora più difficoltosa e ha contribuito a generare una sensazione di insicurezza tra la popolazione locale.
Anche nel caso giordano, uno degli ostacoli maggiori all’integrazione dei siriani è costituito dalle difficoltà a entrare nel mondo del lavoro. Inizialmente, ai rifugiati era concesso di lasciare i campi profughi con maggiore facilità e molti di loro ottenevano dalle autorità giordane la cosiddetta carta di accesso ai servizi, con la quale potevano usufruire di alcune prestazioni sociali e cercare un lavoro. Dal 2015 vi sono controlli più rigorosi, soprattutto sul rispetto della clausola secondo la quale, per poter aver accesso ai servizi, il cittadino siriano necessita di un garante giordano di età superiore ai 35 anni (generalmente, un parente). Dal momento che molti non hanno tale requisito, si è registrato un netto calo delle concessioni della carta per l’accesso ai servizi, la quale tra le altre cose costituiva un prerequisito per poter ottenere un permesso di lavoro. Come conseguenza, alla fine del 2017 erano soltanto il 10% i siriani che lavoravano legalmente in Giordania, mentre gli altri sono spesso assunti in settori dell’economia informale. Anche la Giordania reclama un maggiore interessamento da parte della comunità internazionale circa gli enormi costi che il paese sta sostenendo per poter continuare a ospitare sul proprio territorio centinaia di migliaia di siriani37. Nel caso giordano, come in quello libanese, i timori maggiori sono legati a una possibile polarizzazione sociale, con la popolazione locale sempre meno incline ad accettare la presenza dei rifugiati, soprattutto alla luce dei pochi sforzi compiuti in tal senso da parte dei paesi arabi più ricchi, come quelli del Golfo, o di quelli europei.
Conclusioni
L’immigrazione, sia dei cosiddetti migranti economici, che dei rifugiati e dei richiedenti asilo, rappresenta oggigiorno una sfida non soltanto per i governi europei. Al contrario, gli stessi paesi di origine e transito sono coinvolti in prima persona nella gestione di un fenomeno che assume sempre di più le caratteristiche di una questione di portata internazionale. Se, da un lato, i paesi europei – soprattutto quelli che per la loro posizione geografica sono maggiormente esposti all’immigrazione tramite la rotta mediterranea: Italia, Spagna, Grecia e Malta – rivendicano una maggiore partecipazione degli altri stati membri dell’UE nella soluzione di quella che viene percepita come una crisi, dall’altro lato i governi della sponda meridionale e orientale del Mediterraneo si trovano ad affrontare problemi di gestione degli immigrati e dei rifugiati di portata ben più grande. Paesi come la Turchia, la Giordania e il Libano ospitano centinaia di migliaia di rifugiati siriani e, senza un adeguato sostegno da parte della comunità internazionale, rischiano di veder precipitare la situazione di sicurezza all’interno delle rispettive società, che mostrano segnali sempre più intransigenti verso la presenza di un così alto numero di rifugiati nel loro territorio. Il sostegno che tali paesi si aspettano dalle organizzazioni internazionali si somma agli sforzi che le istituzioni europee in primis dovrebbero mettere in campo con l’obiettivo di far sì che le condizioni degli immigrati lungo la rotta che dall’Africa subsahariana porta verso il Mediterraneo possano essere migliori. Dal momento che, sia nei paesi di origine sia in quelli di transito, si verificano spesso episodi di violenza e di negazione dei diritti umani, è interesse degli stessi governi europei che anche i paesi nordafricani riescano a gestire in maniera migliore i flussi migratori. In tal modo, la stessa cooperazione da parte di questi governi potrebbe diventare una risorsa in più per l’Europa. Nell’approntare una nuova e più efficace politica di cooperazione con questi paesi, occorre considerare anche le priorità di tali partner e adottare una approccio che possa essere al tempo stesso regionale, ma anche basato sulle peculiarità e gli interessi politici ed economici di ogni singolo attore.
1 I dati degli sbarchi attraverso il Mediterraneo sono quelli ufficiali forniti dall’Unhcr e possono essere visionati, con aggiornamenti quotidiani, a questo indirizzo internet: https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean/location/5205.
2 Al 5 settembre 2018, in Spagna sono sbarcate già 35.000 persone, mentre in Italia e in Grecia circa 20.000 a testa. Il dato della Spagna è quanto più interessante, se confrontato con gli anni immediatamente precedenti. In tutto il 2017 erano arrivate circa 28.000 persone, mentre dal 2014 al 2016 il dato non aveva mai superato i 15.000 sbarchi su base annua. Ciò denota un chiaro cambiamento delle rotte migratorie dall’Africa verso il Mediterraneo.
3 Basti guardare i dati relativi al programma di redistribuzione di circa 100.000 rifugiati dall’Italia e dalla Grecia nel 2015. Gran parte dei paesi europei, con l’eccezione di alcuni paesi scandinavi come Finlandia e Svezia, non ha accolto il numero di rifugiati stabilito. Austria, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia non ne hanno accolto nessuno.
4 Accordi a vario titolo e con lo scopo di controllare le frontiere e chiudere i confini, sono stati stretti tra gli altri con Niger, Turchia e Libia.
5 Secondo le ultime stime fornite dall’Unhcr, il conflitto siriano ha causato la fuga di 5,6 milioni di persone che hanno cercato rifugio all’estero, mentre sarebbero almeno 6,6 milioni i siriani sfollati all’interno della Siria stessa.
6 Secondo i dati dell’Unrwa, in Giordania vivono circa 2,2 milioni di rifugiati palestinesi e si stima vi siano ancora circa 200.000 iracheni fuggiti dopo l’inizio del conflitto del 2003; in Libano vivono ad oggi circa 450.000 rifugiati palestinesi.
7 Si noti, però, come in Libia si trovino ad oggi ancora più di 700.000 immigrati. In molti casi si tratta di persone che vorrebbero uscire dal paese, per andare in Europa o tornare verso i propri paesi di origine, ma le cui condizioni di detenzione o di povertà non lo permettono.
8 Si pensi ad esempio all’area del bacino del Lago Ciad, tra Ciad, Nigeria, Niger e Camerun. La superficie del lago è diminuita del 90% negli ultimi 50 anni, mentre circa 25 milioni di persone dipendono dalle attività agricole e di pesca del bacino. Ciò ha provocato lo spostamento di circa 2,5 milioni di persone nei paesi limitrofi e ha causato una situazione di emergenza alimentare che affligge, secondo i dati della Fao, almeno 7,5 milioni di persone.
9 Si veda anche L. Lixi, “Beyond Transactional Deals. Building lasting migration partnerships in the Mediterranean”, Transatlantic Council on Migration - Migration Policy Institute, novembre 2017.
10 Si veda anche S. Carrera, J. Cassarino, N. El Qadim, M. Lahlou e L. Den Hertog, “Morocco Cooperation on Readmission, Borders and Protection: A model to follow?”, CEPS Paper in Liberty and Security in Europe, gennaio 2016, n. 87.
11 Per un’analisi delle politiche di regolamentazione dell’immigrazione in Marocco, si veda anche “In The Same Boat: Morocco’s Experience with Migrant Regularization”, Working Paper of Harvard University Winter Field Study Course 2016 in Assessing the Humanitarian Impact of Migration in the Mediterranean, gennaio 2016, https://www.belfercenter.org/sites/default/files/files/publication/In%20....
12 Si veda ad esempio Human Rights Watch, “Abused and Expelled. Ill-Treatment of Sub-Saharan African Migrants in Morocco”, febbraio 2014.
13 Si veda ad esempio M. El-Katiri, “From Assistance to Partnership: Morocco and its Foreign Policy in West Africa”, Strategic Studies Institute, 2015.
14 Il testo integrale dell’accordo che regola la libertà di movimento delle persone all’interno dell’area Ecowas è scaricabile a questo link:
http://documentation.ecowas.int/download/en/legal_documents/protocols/PR....
15 I dati relativo ai flussi da e per il Niger sono costantemente monitorati dall’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (Iom) e possono essere visualizzati a questo link: http://www.globaldtm.info/niger/.
16 Si veda Human Rights Watch, “Algeria: Inhumane Treatment of Migrants”, giugno 2018.
17 Si veda anche J. Ben Yahia, “Algeria’s migration policy conundrum”, Institute for Security Studies, luglio 2018.
18 I dati sono quelli ufficiali emanati quotidianamente dal Cruscotto del Ministero dell’Interno, consultabile al link: http://www.interno.gov.it/it/sala-stampa/dati-e-statistiche/sbarchi-e-ac....
19 Si veda il documento annuale del Ftdes (Forum Tunisien pour les Droits Economiques e Sociaux), “Rapport annuel Émigration non règlementaire depuis la Tunisie 2017”, consultabile al link: https://ftdes.net/emigration2017/.
20 Si veda anche M. Herbert, M. Gallien, “Tunisia isn’t a migrant transit country – yet”, Institute for Security Studies, August 2018.
21 Dalla fine dell’estate del 2017, inoltre, si è registrato un aumento dei prezzi dei beni e dell’inflazione superiore agli anni precedenti, in concomitanza anche con un deprezzamento di circa il 30% della moneta locale, il dinaro tunisino. Tale congiuntura ha contribuito a determinare una situazione di crisi economica eccezionale.
22 Come nel caso del Marocco, i dati sono della Banca Mondiale e si riferiscono al 2017.
23 Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, seguono il Pakistan e l’Uganda con 1,4 milioni di rifugiati presenti sul proprio territorio; il Libano, con più di un milione di rifugiati e l’Iran, con quasi 980.000 rifugiati.
24 Si veda M. Ziya Pakoz, “Turkey's Kilis: A rare example of refugee integration”, Al Jazeera, 18 maggio 2016.
25 Si veda ad esempio il seguente report: Human Rights Watch “When I Picture My Future, I See Nothing.” Barriers to Education for Syrian Refugee Children in Turkey”, Novembre 2015.
26 Si veda anche K. Kirişci, J. Brandt, M. Murat Erdoğan, “Syrian refugees in Turkey: Beyond the numbers”, Brookings Institution, 19 giugno 2018.
27 Si veda anche “Turkey’s Syrian Refugees: Defusing Metropolitan Tensions”, International Crisis Group- Europe & Central Asia Reports, gennaio 2018, n. 248.
28 Per dare un’idea delle dimensioni, se tale proporzione fosse rapportata all’Italia, quest’ultima avrebbe circa 12 milioni di rifugiati presenti sul proprio territorio.
29 Si veda anche M. Yahya, “Unheard Voices: What Syrian Refugees Need to Return Home”, Carnegie Endowment for International Peace and Democracy, aprile 2018. In particolare, il secondo capitolo affronta in maniera dettagliata le problematiche e le criticità della gestione dei rifugiati siriani in Libano e in Giordania.
30 Si veda N. Hägerdal, “Lebanon’s Hostility to Syrian Refugees”, Brandeis University Middle East Brief, 2018, n. 16.
31 Questi sono i risultati di una statistica e degli studi dell’Unhcr sulla situazione dei rifugiati siriani in Libano. Si veda il seguente report: Unchr, “Vulnerability Assessment of Syrian Refugees in Lebanon”, dicembre 2017.
32 Si veda il seguente rapporto: Human Rights Watch, ““Our Homes Are Not for Strangers”. Mass Evictions of Syrian Refugees by Lebanese Municipalities”, aprile 2018.
33 Nel campo si stima vi sia una media di 80 nuove nascite ogni settimana. Si veda il report dell’Unhcr http://reporting.unhcr.org/sites/default/files/UNHCR%20Jordan%20Zaatari%....
34 “ISIS Is Said to Claim Responsibility for Deadly Attack in Jordan”, The New York Times, 20 dicembre 2016.
35 Si veda ad esempio “Syria's war: Why Jordan keeps its borders shut to Deraa refugees”, Al Jazeera, 7 luglio 2018.
36 Si veda anche M. Yahya, “Unheard Voices: What Syrian Refugees Need to Return Home”, cit.
37 Si veda ad esempio “Jordan shut out out 60,000 Syrian refugees — and then saw a backlash. This is why.”, The Washington Post, 7 luglio 2018.