A destra l’edificio per le visite matrimoniali, a sinistra il salone per le cerimonie e di fronte a noi il resto dello sterminato complesso delle prigioni di Hair, a pochi chilometri da Riyadh, in Arabia Saudita. "Non abbiamo niente da nascondere, le porte delle nostre prigioni sono aperte" è lo slogan che accoglie i visitatori all’ingresso. Proprio all’interno di questi istituti di pena viene avviato il percorso di de-radicalizzazione che poi procederà nel centro di riabilitazione.
Nel marzo di quest’anno ho avuto l’opportunità, rara per un ricercatore occidentale e per una donna in particolare, di trascorrere un soggiorno di ricerca in Arabia Saudita per conto di al-Mesbar Studies & Research Centre di Dubai, riuscendo ad osservare da vicino il trattamento saudita dei crimini legati al terrorismo nelle prigioni e all’interno del Muhammad Bin Nayef Counselling and Care Center, ideato poco più di un decennio fa proprio dal Principe Bin Nayef e finalizzato alla de-radicalizzazione e riabilitazione di ex-terroristi e più in generale dei detenuti accusati di crimini legati al terrorismo.
Dopo gli attacchi avvenuti nel Regno degli al-Saud nel 2003, la Famiglia Reale ha iniziato a favorire attivamente l’applicazione, accanto a quelle di stampo repressivo, di strategie di "soft counterterrorism", con l’obiettivo di combattere le giustificazioni ideologiche e religiose al jihadismo. Nella sua globalità, la strategia si basa sull’acronimo "PRAC" (Prevention, Rehabilitation, Aftercar), in cui l’aspetto riabilitativo rappresenta la componente primaria e con le maggiori risorse. Il programma nasce in carcere, dove è condotto da psicologi, psichiatri, esperti di diritto islamico ed imam. Al termine della pena, il soggetto viene trasferito al centro di riabilitazione dove si suppone completi il suo percorso seguito da un team di esperti con differenti background i quali, alla fine della permanenza, si esprimeranno sul rilascio o sull’eventuale ritorno in carcere.
Per quanto riguarda le carceri, i detenuti nelle cinque giurisdizioni di Riyad, Damman, Gedda, Qasim e l’Area Meridionale sono in tutto 4.993. 1054 individui hanno tra i 26 ed i 30 anni, dato che rende questa la fascia d’età più rappresentata. Nella maggioranza dei casi, i detenuti sono condannati per "terrorism-related crimes", reati legati alla droga, e omicidi commessi all’interno di conflitti inter-tribali. Riguardo al primo gruppo, i soggetti erano in maggioranza membri o simpatizzanti attivi di al-Qa’ida o Da’ish. All’interno del complesso c’è un ospedale completamente equipaggiato e gratuito, viene fornito ogni grado di istruzione e molti detenuti si laureano ogni anno, vi sono biblioteche, sale da pittura e uno studio di incisione, oltre alla possibilità di contrarre matrimonio, come è già avvenuto in tre casi dal 2007 ad oggi.
Ogni detenuto, uomo o donna, ha diritto ad almeno due visite matrimoniali al mese in stanze senza telecamere e gli uomini lavorano in due grosse serre per quattro ore al giorno, consumando poi quanto coltivato. Secondo un detenuto "l’agricoltura aiuta i prigionieri a sviluppare una progettualità e un nuovo attaccamento alla propria terra". Più concretamente, dopo il rilascio molti di loro avviano attività commerciali basate sulle nuove competenze.
Di recente è stata introdotta nel sistema anche la Bayt al-‘Aily, “Casa famigliare”: una serie di appartamenti nei quali i soggetti più disciplinati, nella totale assenza di telecamere, possono permanere con le proprie famiglie fino a tre giorni consecutivi, durante i quali cessano di essere chiamati detenuti per diventare temporaneamente ospiti. Dal punto di vista organizzativo, quasi tutti i ministeri hanno un ufficio permanente all’interno del carcere. Degno di nota però, è soprattutto la presenza dell’Ufficio per il monitoraggio dei diritti umani entro le mura, che le autorità non hanno mancato di sottolineare più volte a beneficio di una osservatrice occidentale.
Dopo la permanenza in carcere, i detenuti per crimini legati al terrorismo vengono trasferiti al Markaz Muhammad Bin Nayef li al-Nāsiḥa wa al-Rā’ya, (Centro Muhammad Bin Nayef per il Counselling e la Riabilitazione). Il progetto è andato sviluppandosi dal 2004 a partire da un decreto reale e finora sono passate da questo centro 3.181 persone, tra le quali da circa dieci anni una quota significativa di ex-detenuti di Guantanamo. L’azione di counselling è attuata da un gruppo di professionisti e studiosi di differenti discipline quali psicologia, sociologia, studi islamici, ed è organizzata in dipartimenti che presiedono ad attività eterogenee, dagli studi shariatici a quelli storici, dallo sport al training professionale.
Molti ricercatori hanno evidenziato la lunga lista di privilegi riservati ai detenuti, tanto che si è più volte parlato della prigione di Hair e del Centro Bin Nayef alla stregua di “alberghi di lusso per terroristi”. Tale definizione, pur motivata dalla situazione detentiva fuori dal comune è semplicistica e fuorviante. Al di là di quelli che sembrano palesi eccessi infatti, il programma sembra essere dotato di fondamenta piuttosto solide e un buon livello di efficacia. Secondo le statistiche ufficiali il tasso di successi si attesta tra l’80 ed il 90%, anche se per fornire stime più attendibili sulle recidive sarebbero necessari altri anni. Per quanto riguarda i cardini dell’approccio, essi si innestano su una profonda rilettura del messaggio religioso, la cui interpretazione jihadista aveva condotto i soggetti all’accettazione ideologica e talvolta all’utilizzo della violenza come mezzo di cambiamento, e sul parallelo sviluppo della intimā’ waṭany, il senso di appartenenza nazionale coltivato al duplice scopo di aumentare la fiducia degli individui nel Regno e di scoraggiare l’opposizione violenta ad esso.
Esempio emblematico di come il sistema riabilitativo cerchi di appropriarsi dei concetti della narrativa jihadista per creare un discorso alternativo è una delle scritte presenti all’ingresso del complesso, che commemora i poliziotti morti come "martiri del dovere". L’utilizzo dell’epiteto shuhadā’ (sing. shahid), “martiri”, per le forze di sicurezza, e soprattutto la scelta di affiancarlo al concetto di dovere in senso nazionale, rappresenta un potenziale scacco ideologico non indifferente nei confronti della retorica jihadista. Anche i dipinti dei detenuti – la cui presenza stessa è significativa considerando che alcune interpretazioni ultra-conservatrici vietano la raffigurazione di soggetti reali in quanto significherebbe volersi sostituire a Dio nell’atto creativo – contengono messaggi nazionalistici espliciti, gridati, con “Da’ish e le sue sorelle” schiacciate dal pugno della sicurezza nazionale.
Nonostante l’indiscutibile forza della narrativa nazionale, persistono tuttavia alcuni dubbi sulla fisionomia del programma. In particolare, i rischi individuati durante l’osservazione diretta sono stati due. Innanzitutto, una sorta di graduale normalizzazione della violenza jihadista: se il terrorismo è qualcosa che semplicemente avviene e i soggetti si possono in seguito riabilitare, il rischio è che ciò venga almeno in parte normalizzato come fenomeno ineliminabile, che in ultima analisi potrà essere trattato solo a posteriori. In secondo luogo, per quanto riguarda l’attenzione accordata allo sviluppo del senso di appartenenza nazionale, l’impressione è che in essa sia racchiuso il rischio di presentare in modi differenti la violenza perpetrata in patria – del tutto inaccettabile - e quella all’estero, sulla quale la formazione ideologica nel Centro non sembra concentrarsi con la stessa intensità.
Sara Brzuskiewicz, dottoranda Università Cattolica del Sacro Cuore e Junior Researcher presso la Fondazione ENI - Enrico Mattei (FEEM)
* È disponibile al seguente link la versione in inglese del testo