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Commentary

Arabia Saudita: via libera alla successione

Armando Sanguini
03 luglio 2017

Molte cose stanno cambiando in Arabia Saudita. Alcune in maniera poco visibile e comunque poco apprezzabili ai nostri occhi, come nell’area dei diritti della persona, e della donna in particolare, dove il patto tra la famiglia regnante e la famiglia religiosa posto a fondamento della stessa identità nazionale lascia meno spazio all’allentamento di usi e tradizioni consolidati. Ma è un fatto che la prima famiglia stia gradualmente erodendo i poteri della seconda: ad esempio in tema di polizia religiosa, di aperture al mondo del lavoro, di inclusione della donna nella Shura, (una sorta di Parlamento consultivo).

Altre stanno cambiando con modalità più appariscenti come il passaggio dalla gerontocratica governance saudita a una delle monarchie più giovani del pianeta. Iniziata con Abdallah questa metamorfosi si è accelerata col re Salman che l’ha per di più accompagnata con una robusta riforma dell’intera struttura e declinazione del “sistema paese”, cogliendo i crescenti segnali provenienti dalle fila più vitali del tessuto sociale del paese.

In questo contesto si è collocata la più percuotente novità: la nomina di Mohammed, 31enne figlio di Salman a Principe ereditario.

Questa nomina era stata scritta a matita dal re padre da molto tempo, ma è stata portata avanti attraverso un laborioso processo di confronto con le decine di potenziali aspiranti a quel ruolo, molti dei quali più anziani e di maggiore esperienza. Ed è stata scritta a penna nel momento in cui la sua candidatura ha potuto contare sul consenso di 31 dei 34 membri del Consiglio della Corona, grazie anche alla concessione di incarichi importanti a numerosi rampolli di Casa reale. È stato sacrificato il precedente Principe ereditario e Ministro dell’Interno, Mohammed bin Nayef, tra l’altro malato, ma con la compensazione della nomina a Ministro dell’Interno di Abdulaziz bin Saud bin Nayef, il suo 34enne nipote con la quale è stato assicurato a quel ramo della famiglia reale il fondamentale controllo della sicurezza del paese.

La scalata del 31enne Mohammed è stata folgorante. Per meriti paterni, certo, ma anche per la sua prorompente personalità e la sua capacità di affermare carisma e autorevolezza su settori chiave della società saudita; dalla sua stessa famiglia reale, con i suoi codici e protocolli, alla élite economica, intellettuale, burocratica e tecnocratica del paese, alla stessa famiglia religiosa. Un capolavoro. Il tutto corroborato dal suo farsi protagonista-promotore di due grandiosi obiettivi strategici. 

Il primo porta l’immaginifico nome di "Vision 2030" e si compendia in un articolato programma di diversificazione/modernizzazione dell’ossatura del sistema economico, sociale e finanziario del paese, con l’obiettivo di traghettarlo verso l’orizzonte dell’emancipazione progressiva dalla dipendenza dal petrolio. Un programma ambizioso, forse troppo, secondo molti osservatori esterni, ma che dà la misura dell’adrenalinico respiro concettuale e politico che Mohammed bin Salman sta soffiando sul paese e proiettando all’attenzione economica e finanziaria del mondo.   

Il secondo obiettivo si sostanzia nell’affermazione dell’Arabia Saudita quale soggetto di alto ruolo e rango a livello planetario e potenza politico-militare egemone a livello regionale, e dunque capace di rispondere a qualsivoglia minaccia esterna e di garantire il riscatto del paese da quella che è stata ed è avvertita come una ingiusta penalizzazione provocata dalla “pax medio orientale” – con l’accordo nucleare con l’Iran al centro – perseguita con dubbi risultati dall’Amministrazione Obama.

È su quell’altare di orgoglio nazionale che del resto è stata celebrata l’avventura militare in Yemen, discutibile ancorché legittimata dalle Nazioni Unite, e tuttora foriera di rischiose incognite. E chi aveva temuto (o sperato) che la palude in cui ha cacciato il paese ne avrebbe tarpato le ali, si è dovuto ricredere anche perché sullo stesso altare Mohammed Bin Salman ha depositato il suo maggior successo: fare di Riyadh la prima tappa della prima missione all’estero di Donald Trump, una vittoria politico-diplomatica ma anche economica e militare, regionale e internazionale.

In quel contesto di ritrovata alleanza con gli USA e di ostentata forza araba e islamica (oltre 50 stati a raccolta) puntata contro il terrorismo ma traguardante anche l’Iran non potevano essere tollerate le spregiudicate espressioni pubbliche a difesa dell’Iran diffuse dal Qatar, già pesantemente redarguito nel 2014 per la sua disinvolta divaricazione dal mainstream politico del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc).

Da qui la decisione presa da Riyadh, dagli Emirati, dall’Egitto, e da altri, non solo di rompere le relazioni diplomatiche ma anche di stringere il Qatar in un soffocante isolamento terrestre, marittimo e aereo per costringerlo a cambiare rotta in materia di alleanze e di sostegni al “terrorismo”, con ciò intendendo anche la Fratellanza Musulmana, ostracizzata in particolare dall’Egitto. Ma così facendo si è aperta una ferita che rischia incidere pesantemente sugli equilibri del Golfo e, quel che è peggio, di esaltare le spinte di contrasto con l’Iran, oltre che con la Turchia.

Ciò nel momento nevralgico dello scontro che si sta consumando tra Mosca e Washington sulla conquista del cosiddetto “corridoio sciita” da Beirut a Damasco a Teheran, passando per l’Iraq. Momento che non sembra favorire la ponderazione né da una parte né dall’altra anche perché se è vero che l’ossessione iraniana ha un reale fondamento anche nella strategia del modernizzante Mohammed bin Salman, è altrettanto vero che essa viene tenacemente alimentata da parte iraniana malgrado i propositi di buon vicinato ribaditi da Rouhani.

 

Armando Sanguini, ISPI Senior Advisor e già ambasciatore italiano a Riyadh (2003-2005)

 

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Medio Oriente Crisi monarchia al-Saud
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Armando Sanguini
ISPI Senior Advisor

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