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Commentary

Arabia Saudita vs IS: tra l'incognita Iran e l'alleato Usa

Armando Sanguini
29 giugno 2015

Se è vero che l’irruzione del Califfato in Medio Oriente ha alterato sensibilmente la già fragile e tormentata geografia politica, sociale ed economica dell’area, non è meno vero che gli sviluppi della trattativa 5+1-Iran sul programma nucleare di Teheran vi hanno aggiunto derive suscettibili di consegnare a un futuro denso di incognite i suoi equilibri interni e quelli fra i principali players internazionali che vi gravitano. 

Questa duplice dinamica e i relativi elementi di correlazione hanno indotto l’Arabia Saudita, uno dei maggiori protagonisti della complessa vicenda mediorientale, a un ulteriore, robusto aggiornamento della sua politica regionale e internazionale, tesa tra i poli del confronto egemonico con l’Iran, della storica alleanza con gli Usa e del ruolo di primus inter pares nel mondo islamico sunnita.  

Su questo sfondo si comprende come Riyadh sia stata la prima, o fra le prime cancellerie, a lanciare l’allarme per quella che si sarebbe confermata la travolgente avanzata dello Stato Islamico (IS) e il complementare fenomeno dei foreign figthers; e la prima o tra le prime a porre in atto concrete misure normative e operative finalizzate a contrastarlo. Si comprende meno invece che così non sia stato per l’Occidente, gli Stati Uniti e l’Europa in testa, forse perché distratti da altre priorità e forse perché riluttanti a riconoscersi almeno in parte, corresponsabili del brodo di coltura di cui IS si era nutrito, e si stava nutrendo, in Siria e in Iraq, e quindi a impegnarsi in una reazione proporzionale alla virulenza di questa “nuovo”, in realtà tutt’altro che nuovo, soggetto millenaristico del terrore di matrice islamico-sunnita. 

Si capisce anche perché Riyadh sia stata tra le capitali che con più convinzione hanno aderito alla coalizione anti-IS a guida americana varata solo a settembre 2014. Sperava, e non ne faceva mistero, che tale schieramento avrebbe potuto disarticolare lo Stato Islamico o tenerlo comunque lontano dal suo territorio; sperava inoltre che la sua azione avrebbe contribuito a dare ossigeno alle forze dell’opposizione a Bashar al-Assad e a far rialzare la testa alle tribù sunnite irachene costrette nel duplice cappio di IS e delle milizie sciite. E sperava anche di poter portare acqua al suo mulino dal confronto con un Iran tanto più temibile per le poderose ricadute a suo danno derivanti dalla positiva conclusione della trattativa dei 5+1 sul suo programma nucleare, data da tempo per scontata.

In realtà, nei primi mesi le cose non sono evolute nel senso sperato, né in Siria, dove il bersaglio Assad si è andato posponendo a quello di IS e le forze di opposizione “moderate” sono apparse schiacciate tra IS stesso e le altre milizie jihadiste, nonché alla ricerca di un realistico collante energetico che l‘omissione occidentale e l’ambiguità turca non hanno certo aiutato; né in Iraq dove il passaggio del testimone da Al Maliki ad Abadi – che pure Riyadh ha voluto manifestamente recepire con favore – non ha portato a un allentamento della presa di Teheran, seppure sub specie d’azione anti-IS, lasciando ben poco margine di manovra alle tribù sunnite; né nel rapporto con l’Amministrazione Obama di cui l’Arabia Saudita stenta ad accettare i fondamentali del suo approccio al Medio Oriente, oscillante tra un minore coinvolgimento, un’ingiustificata apertura di credito all’Iran e una rischiosa multipolarità regionale. Ciò che la induce, da un lato a serrare i ranghi, sia tra le monarchie del Golfo in un rinnovata coesione politico-militare del Gcc sia con gli altri paesi arabi della regione, a cominciare da Libano e Giordania, dall’altro a trovare punti di contatto con Israele, e infine a portare avanti la strategia di allargamento delle proprie alleanze, segnatamente verso i più rilevanti player asiatici, dal vecchio alleato pakistano all’India e alla Cina. Dando l’impressione che il confronto con l’Iran prevalga su quello anti-IS contro cui continua peraltro a dichiarare la sua ostilità come del resto nei confronti di al-Qaida. 

Su questo sfondo interviene, nel 2015, la successione di Salman bin Abdulaziz Al Saud alla guida della casa reale saudita, che inaugura il suo regno nel segno dell’accelerazione di processi in corso, ma soprattutto anche in quello della discontinuità e dell’assertività. La drastica rimodulazione e ringiovanimento della linea successoria, riassestata sull’asse di potere dei Sudairi, della composizione governativa e dello stesso paradigma di governance del paese ne è un segnale essenziale, ma ne è un segnale non meno rilevante la decisione di attaccare gli houthi in Yemen. Si tratta di un fatto che, se da un lato certifica un dichiarato salto di qualità nello scontro per procura con l’Iran – che si conferma l’obiettivo prioritario di Riyadh – dall’altro pone in evidenza il livello di leadership che Riyadh riesce a farsi riconoscere dagli Usa (che assicurano l’appoggio logistico e d’intelligence) quanto quello attestato nell’intero mondo arabo e nei termini più impegnativi di una coalizione militare, quella schierata per l’appunto contro gli houthi e di cui assume la guida, e alla quale partecipano a diverso titolo e ruolo Egitto, Giordania, Marocco, Qatar, Kuwait, Sudan, Emirati, con l’appoggio esterno del Pakistan. Come non cogliere in questo il segnale lanciato a Teheran circa l’ampiezza del potenziale fronte politico, e non solo, con cui si potrebbe dover misurare? Significativa l’adesione della Turchia recuperata in un rapporto di maggiore convergenza in funzione anti-Bashar al-Assad e dunque anche anti-Iran, grazie alla maggiore apertura di Salman nei riguardi della Fratellanza musulmana; di quella stessa Turchia che con IS non cessa di mantenere un rapporto ambiguo, che però potrebbe anche risultare utile, un giorno.

Interessante anche l’ostentato riavvicinamento a Mosca che si ufficializza nel momento stesso, non certo casuale, della riconferma delle sanzioni occidentali e che ha già portato il dividendo della Risoluzione 2216 sullo Yemen. Potrebbe condurre ad altre “convergenze d'interessi”: in Siria, ad esempio, dove forse si è ancora in tempo a pilotare una transizione post-Bashar al-Assad che compatti la parte “più utile” del territorio siriano, indebolisca comunque l’alleanza Damasco-Teheran, ed eviti di dare ulteriore spazio a un IS che sembra al momento proteso soprattutto al consolidamento del controllo sul suo “Stato Islamico” (vedi Kobane) nell’ex area siriana e in quella irachena. In quest’ultima IS non sembra temere l’annunciata controffensiva iracheno-iraniana alla quale resta da vedere come si regolerà, nei fatti, Washington. Certamente Riyadh si è attrezzata per l’ipotesi di un tentativo espansionistico dello Stato Islamico, ma quest’opzione non sembra imminente e non sembrano essere delle anticipazioni al riguardo gli attacchi portati in territorio saudita che, teniamolo presente, hanno puntato a bersagli sciiti, non sunniti. Anche in Yemen. L’incognita resta, ma nello stesso tempo, e seguendo la strategia complessiva di IS in cui gioca un ruolo importante la componente baathista irachena (ex Saddam Hussein), sembra lasciare spazio a spunti di immaginazione, anche arditi, ma compatibili con la magmatica realtà di quell’area intrisa di sotterranei e opachi (per noi) reticoli di raccordo e di alleanze. Arditi, ma che le temute (da Riyadh) derive egemoniche regionali suscettibili di materializzarsi a opera di Teheran con l’accordo 5+1 sul nucleare iraniano, se ci si arriverà, come penso, potrebbero rendere verosimili.

Armando Sanguini, ISPI Scientific Advisor, già Ambasciatore d’Italia in Tunisia e Arabia Saudita.
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Iran IS Riyadh Siria Al-Assad USA jihad terrorismo accordo nucleare
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Armando Sanguini
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