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Elezioni
Argentina al voto: Macri spera nel miracolo
Gilberto Bonalumi
26 ottobre 2019

A partire dalle elezioni cilene dello scorso anno, che riportarono al potere il conservatore Sebastian Pinera, sono venuti avanti altri mutamenti, come quello colombiano, che si è portato dietro un grande interrogativo sopra il processo di pace liderato dal suo predecessore che aveva impostato l’incorporazione dell’antica guerriglia, ora disarmata, e portata dentro l’istituzionalità politica. Una decina di anni fa, la gran parte dei governi latinoamericani si dividevano tra governi definiti sinistra borbonica e quelli socialdemocratici. Ora il pendolo si sta spostando decisamente a destra. A tutto questo fanno eccezione il Messico e l’Uruguay anche se quest'ultima andrà alle elezioni nella stessa giornata elettorale dell’Argentina.

Domenica 27 ottobre si vota in Argentina per eleggere il nuovo presidente, oltre ai governatori delle province, fra cui quello di Buenos Aires, il più importante. La disputa per la massima carica dello stato è fra il presidente uscente Mauricio Macri – l’unico presidente non peronista che è riuscito a terminare il mandato dal lontano 1954 – e l’avvocato peronista Alberto Fernandez (60 anni) che fu capo di gabinetto prima di Nestor Kirchner dal 2003 e dopo la morte di sua moglie Cristina fino al 2008, quando entrò in contrasto con lei e si dimise. Ma la ex presidenta – perseguita da 7 inchieste giudiziarie – per tornare in campo ha scelto proprio lui per la sua indipendenza e onestà, accontentandosi di essere la sua vice in un ruolo defilato che le permette di tornare al potere e regolare i conti con i suoi nemici.

Quando assunse il potere il 10 dicembre 2015 il presidente Mauricio Macri, alla guida di Cambiemos (coalizione liberale di centro-destra), ereditava un'economia in recessione, protetta da barriere doganali e ostacoli alle importazioni, per il 70% in mano allo stato che elargiva sussidi e assistenza, un settore privato asfittico e penalizzato, con un'inflazione annua del 30% (quella ufficiale esibiva dati truccati), e tassi di interesse alle nuvole. Macri fece due promesse: 1) che avrebbe restaurato le regole del mercato e dell’ortodossia finanziaria, smontando le disastrose politiche populiste di 12 anni di kirchnerismo; e 2) non avrebbe fatto nessun ajuste economico, espressione che evoca negli argentini i peggiori incubi. In quel momento la sua popolarità era al 66%, una percentuale inusuale per un governo non peronista.

Macri in effetti tenne la rotta per due anni e mezzo. In pochi mesi pagò il debito ereditato dalla precedente gestione dei coniugi Kirchner, che aveva saldato i conti con il Fondo monetario internazionale (FMI), ma aveva rimborsato solo il 30% del debito verso i creditori privati; fece approvare leggi importanti per la lotta contro la corruzione e il narcotraffico e diede impulso a un programma di opere pubbliche. In ossequio alla sua ideologia liberista ha cercato di riconvertire al mercato una economia statalista, assistenziale e protetta come quella argentina. Ma ha commesso molti errori ed è fallito perché l’economia non è un giocattolo che si può smontare e rimontare a piacimento; ha le sue regole, i suoi tempi e procedure, dipende dai comportamenti e dalle aspettative dei vari soggetti che agiscono nel mercato.

Così ad esempio Macri ha creduto che si potesse, dall’oggi al domani, aprire alle importazioni e al libero commercio. Errore fatale. Il fragile tessuto industriale argentino non ha retto la concorrenza estera e molte piccole e medie imprese sono andate fuori mercato e fallite. I dati del mese di ottobre misurano che l’attività industriale è caduta dell’8,1% negli ultimi 12 mesi, colpendo soprattutto il settore automobilistico, che è calato del 26,4%. In Argentina ci sono ben 12 fabbriche nel settore automobilistico, alcune delle quali hanno più di un secolo. Nel 1925 la Ford costruì in Buenos Aires il suo primo modello T in America Latina, introducendo la catena di montaggio. Per evitare la desertificazione industriale è stato costretto a rimangiarsi il provvedimento, adottando misure impopolari come l’aumento delle tariffe dei servizi pubblici (luce, gas, acqua, trasporti), che il precedente governo populista aveva tenuto artificialmente basse per ottenere un facile consenso a spese dell’erario. Ma non ha capito che i rincari (del 150-200%) rappresentavano un aggravio insopportabile per le famiglie del ceto medio e popolare che si sono sentite defraudate e si sono rivoltate contro.

Infine, Macri si è rivolto agli investitori internazionali che hanno promesso di investire ma non nell’economia reale, nelle infrastrutture e nel sistema produttivo, bensì nei buoni del tesoro argentini, attratti dagli alti rendimenti. È stato questo il suo tallone d’Achille perché, come altre volte nella storia, l’Argentina si è indebitata verso l’estero esponendosi ad una “corrida cambiaria” che non è tardata ad arrivare.

Un anno dopo, nel giugno del 2018, è scoppiata la “tempesta perfetta”. Gli argentini, come è accaduto altre volte, si sono buttati a comprare dollari e esportare i capitali all’estero, accelerando in questo modo la svalutazione del peso, e gli investitori stranieri, vista la mala parata, hanno disinvestito i loro assets nei titoli del debito pubblico argentino, determinando lo scoppio della “bolla finanziaria” che ha costretto la Banca centrale argentina a usare le riserve per sostenere la moneta e aumentare il tasso di interesse alla cifra mostruosa del 60%. Il peso si è svalutato di oltre il 30% (ci volevano 20 pesos per 1 dollaro all’inizio del 2018, ad agosto ce ne volevano 38); l’inflazione che dal 25% si è avvicinata a settembre al 50%. Se sale l’inflazione il credito cade, e si paralizza il consumo e l’economia va in recessione (il PIL nel 2018 è caduto del -2,6%). Non è passato molto tempo che tutto questo si è trasferito sull’occupazione e sugli indici di povertà. Ad agosto 2019 la disoccupazione urbana è passata dall’8 al 10,2% e le persone sotto la soglia di povertà sono aumentate dal 28 al 35% (8 punti in più rispetto a un anno fa): eppure Macri promise povertà 0.

Il meccanismo della tempesta perfetta una volta innescato è difficile da fermare. E il governo Macri non è stato in grado di fermarlo con le sue forze ed è stato costretto nel giugno 2018 a rivolgersi all'FMI che, dopo un faticoso negoziato condotto dal ministro delle Finanze Nicolás Dujovne con Christine Lagarde, direttrice del FMI, un prestito di 57 miliardi di dollari, una cifra mai concessa a nessun paese e che avesse lasciato più di un’ombra di sospetto. Ora che Lagarde è trasmigrata alla Banca centrale europea negli ambienti del Fondo si parla apertamente di un favore fatto a Macri, un vero e proprio “salvataggio” per evitare un nuovo default.

Tuttavia, per la maggioranza degli argentini l’accordo con il FMI è stato percepito come una capitolazione, una dêbacle che ha fatto precipitare la popolarità di Macri al 30% e ha scatenato proteste di piazza e due scioperi generali dei sindacati peronisti. Macri invece sperava che con la prima tranche di 24 miliardi anticipata dal FMI l’economia potesse ripartire nel 2019, anno delle elezioni. Un esile filo su cui si è retta anche la speranza di essere rieletto alla presidenza.

Questo filo si è spezzato l’11 agosto 2019 in occasione delle primarie per la scelta dei candidati dei diversi schieramenti, che in Argentina sono obbligatorie e aperte. Una specie di maxi-sondaggio, trasformandosi di fatto in una prima tornata elettorale. Il ticket Alberto Fernandez-Cristina Kirchner, candidati della coalizione peronista El Frente de Todos, ha ottenuto il 47.7% dei consensi, contro il 32% della coalizione liberal-liberista Juntos por el cambio di Mauricio Macri e del peronista moderato Miguel Angel Pichetto; mentre solo l’8% per l’ex ministro dell’economia Roberto Lavagna, che fu l’uomo che portò l’Argentina fuori dalla crisi del corallito del 2002.

I risultati delle primarie hanno provocato una reazione fortemente negativa dei mercati che hanno considerato un ritorno al potere dei peronisti kircheristi una catastrofe. La Borsa è caduta del 70%, il peso di un ulteriore 38% del suo valore (un dollaro costava 50 pesos), con un’inflazione al ritmo del 5% al mese (60% su base annua).

Agosto 2019 è stato un mese terribile. La Banca centrale ha profuso 13,8 miliardi di dollari per frenare la domanda di divise e sostenere il peso, che, sotto attacco speculativo, ha continuato a svalutarsi fino a toccare i 60 pesos per 1 dollaro.

Il rischio che il paese potesse entrare in una situazione di cessazione dei pagamenti, simile a quella del corallito del 2002 – quando furono bloccati i depositi bancari, spingendo gli argentini a ritirare dalle banche fino a 4 miliardi di dollari –, è stato reale. Il ministro delle Finanze, l’economista Hernán Lacunza nominato da Macri il 17 agosto, nell’assumere l’incarico ha annunciato che il debito sarà “rimodulato”: una formula che risveglia i peggiori fantasmi, cioè che non verrà pagato nelle scadenze stabilite e che verrà chiesto al FMI e agli altri creditori istituzionali un rinvio delle scadenze per i pagamenti del debito per “difficoltà di liquidità”.

Di fronte a questa situazione Macri ha dovuto arrendersi e applicare una misura che aveva sempre criticato: il controllo del cambio. Il 2 settembre ha firmato un decreto che limita la libertà di imprese e banche di acquistare dollari, obbligandole a chiedere una autorizzazione per inviare alle proprie case-madri i profitti in dollari generati nel paese e limitando l’acquisto di divise per i risparmiatori privati ad un massimo di 10 mila dollari.

Questo è lo scenario in cui si è svolta la campagna elettorale in cui Macri parte nettamente sfavorito. Tuttavia, facendo leva sul fatto che i mercati hanno dimostrato che fra i due schieramenti quello che temevano di più era il ritorno del peronismo populista, Macri ha giocato su questo elemento rievocando alla sua base elettorale tutte le negatività sofferte nei 12 anni di kirchenismo. Su questi temi ha ottenuto ascolto in migliaia di persone che partecipavano ai comizi nelle diverse città del paese. Questo ha dato al presidente e al suo entourage una iniezione di fiducia e di ottimismo, partendo con la campagna basata sullo slogan “Si, se puede”. Lo si è visto nella grande manifestazione di sabato 19 ottobre sotto l’obelisco della Avenida 9 de Julio, dove 300 mila persone hanno manifestato più che l’appoggio a Macri la loro avversione a Alberto Fernandez, considerato uomo di paglia di Cristina Kirchner.

Alla vigilia del voto, un risultato che sembrava quasi scontato, cioè la vittoria al primo turno di Alberto Fernandez, non appare più così certo.

Secondo la legge elettorale argentina vince al primo turno chi ottiene il 45% dei voti oppure il 40% ma con 10 punti di distacco sul secondo. Se ciò non accade si va al ballottaggio. Macri crede nella “remontada”, una rimonta che appare impossibile perché gli ultimi sondaggi danno questi dati: Alberto Fernandez 47%, Mauricio Macri 36,5%, Roberto Lavagna 9%. Basterebbero 2 punti in meno per Fernandez e 2 in più per Macri e si andrebbe al ballottaggio. I voti di Lavagna a questo punto risultano determinanti per spostare gli equilibri, ma Macri si sta rendendo conto che funziona meglio come candidato che come presidente. Infatti ha chiuso la sua campagna elettorale con la provocatoria affermazione: “Dicano i Kirchneristi quali sono le soluzioni che intendono adottare ai problemi che essi stessi hanno generato”. Ma Fernandez rimprovera Macri di evitare il confronto privilegiando messaggi misurati da diffondere attraverso le reti sociali e ai raduni, mentre lui pare abbracciare nuovamente il Kichnerismo che mise in piedi l’Argentina.

 

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