Tra il 12 e il 16 luglio, Armenia e Azerbaigian sono tornati a confrontarsi militarmente nell’ormai trentennale conflitto per il Nagorno-Karabakh – parte integrante del territorio azerbaigiano governata di fatto, e con il sostegno di Erevan, da una autoproclamata Repubblica insediatasi manu militari nella regione e in sette distretti a essa limitrofi tra il 1992 e il ’94.
Gli scontri, i più gravi dalla “guerra dei 4 giorni” del 2016, hanno causato un numero elevato di vittime causato su entrambi i fronti (ufficialmente 16) e seguito un copione già tristemente noto, consolidatosi negli anni all’ombra della irriconciliabilità delle posizioni negoziali dei belligeranti. A una breve fase di confronto militare, preparato da settimane di scontri verbali, è cioè seguita la cessazione delle ostilità e l'apertura di una “guerra di parole”, incentrata su un rimpallo di responsabilità tra le parti che si nutre anche dell'assenza, sul campo, di forze internazionali di interposizione o monitoraggio. Del copione di cui sopra fanno parte anche i consueti appelli alla de-escalation e al senso di responsabilità delle parti provenienti dai principali attori della comunità internazionale – ivi compresi Russia, Stati Uniti e Francia, co-presidenti di quel “Gruppo di Minsk” dell'OSCE che dal 1992 guida un'evidentemente inefficace attività di mediazione.
Allo stesso tempo, tuttavia, l'ultima pagina del conflitto armeno-azerbaigiano si è caratterizzata per una serie di elementi di discontinuità con il passato particolarmente critici. Elementi che, tanto che si guardi al quadro diplomatico in cui si sono prodotti quanto che si analizzino le dinamiche che ne sono scaturite, segnalano l'evidente insostenibilità e precarietà dello status quo, mettendo a nudo il rischio concreto di un conflitto su larga scala che si nutre dello stallo negoziale tra le parti e della sostanziale inazione della comunità internazionale.
La localizzazione degli scontri costituisce primo fattore di discontinuità con il passato e segnale d'allarme difficilmente sottovalutabile. Per la prima volta, cioè, il confronto militare non si è prodotto lungo la linea di contatto che circonda i territori sotto occupazione armena, bensì a nord del Karabakh e lungo il confine internazionale tra i due paesi. Ciò si traduce non soltanto in un più elevato rischio di escalation militare tra le parti – tanto più profondo in ragione dei moderni armamenti di cui esse hanno dimostrato di essersi dotate negli anni – ma anche nella possibilità che ciò possa comportare l'attivazione delle clausole di mutuo soccorso contenute nelle alleanze militari da sottoscritte da Erevan e Baku, con Russia da una parte e Turchia dall’altra. Inoltre, la prossimità dell’area degli scontri alle infrastrutture critiche che collegano Azerbaigian e Caucaso meridionale alle rotte energetiche e di trasporto regionali e trans-continentali rende il potenziale di rischio di regionalizzazione del conflitto tanto più elevato.
I maggiori rischi di aperto confronto militare che l’attuale congiuntura sembra dischiudere derivano parallelamente dalle ampie – e per molti versi inedite – ondate di nazionalismo che hanno accompagnato e seguito gli scontri, attraversando trasversalmente le opinioni pubbliche dei due paesi. I loro toni, generalmente bellicosi e revanscisti, dimostrano non soltanto la profondità della faglia che divide due popoli per i quali il ricordo della convivenza nell'edificio sovietico si fa sempre più sbiadito, ma anche quanto diffusa e radicata sia, in entrambi i Paesi, una sindrome di “sovranità mutilata”, di perdurante incompiutezza del processo di costruzione statale. Una sindrome che – a sua volta inestricabilmente legata alle rispettive costruzioni nazionali – rende ancor più precario lo status quo e, ciò che è peggio, restringe notevolmente i margini di manovra delle due leadership, al tavolo negoziale come sul campo di battaglia.
D'altra parte, gli echi del fervore nazionalista acceso dal confronto militare non si sono spenti con esso e hanno – altro significativo quanto pericoloso elemento di novità – trasceso i confini del Caucaso. Mentre il confronto verbale è proseguito (e prosegue) a distanza, sui social e sulla stampa internazionale, pericolosi episodi di violenza fisica hanno interessato le comunità armene e azerbaigiane stanziate all'estero, negli Stati Uniti come in Belgio, nel Regno Unito come in Russia – dischiudendo peraltro per questi ultimi un possibile rischio di contagio della instabilità caucasica.
Le dinamiche e gli eventi messi in moto dagli scontri di luglio tracciano dunque un quadro a tinte fosche. Lo status quo in Nagorno-Karabakh, sempre più manifestamente insostenibile, non è mai apparso tanto precario: la miccia passibile di innescare la deflagrazione della polveriera caucasica è sempre più corta, così come sempre più concreta è la possibilità che possa essere accesa da “fattori di innesco” che sfuggono al controllo dei governi di Baku ed Erevan.
Non più incoraggiante appare peraltro il contesto diplomatico di riferimento. Gli scontri decretando infatti il definitivo tramonto delle speranze di riavvicinamento negoziale tra le parti suscitate dalla “Rivoluzione di Velluto” armena del 2018. Avendo rimosso dai vertici delle istituzioni nazionali una leadership originaria del Karabakh evidentemente poco propensa al compromesso, la Rivoluzione aveva infatti facilitato timide quanto significative iniziative di confidence building tra i belligeranti. Tuttavia, sullo sfondo di una crescente polarizzazione politico-istituzionale interna, Nikol Pashinyan, guida della Rivoluzione e attuale Primo ministro, sembra non avere forza sufficiente ad avanzare formule di compromesso in grado di spezzare lo stallo negoziale. D’altra parte, nonostante i segnali di apertura dati alla controparte armena a partire dal 2018, non è ipotizzabile che possa essere l'Azerbaigian a far ciò. Non appare cioè ipotizzabile che la leadership di un Azerbaigian forte di crescenti risorse di potere materiale e immateriale possa rinunciare a una posizione negoziale imperniata sulla piena riaffermazione della sovranità sui territori sotto occupazione de facto e sul diritto di rientro degli sfollati. Posizione, questa, coerente non soltanto con il principio del rispetto dell’integrità territoriale azerbaigiana più volte affermato dalle istituzioni internazionali, ma anche con gli stessi “Principi di Madrid”, promossi e accettati dai belligeranti nell’ambito del processo di pace mediato dal Gruppo di Minsk.
In una congiuntura tanto complessa, la responsabilità di disinnescare la miccia caucasica non può che ricadere sul Gruppo di Minsk, con l’auspicabile sostegno di quegli attori – statali e non – che più intensamente proiettano la propria influenza verso l'area e che più direttamente sarebbero colpiti da una escalation militare. Allo stesso tempo, l’attuazione dei Principi di Madrid e della logica graduale da essi avanzata per la risoluzione del conflitto appare il più naturale punto di partenza per riaffermare il primato del diritto sulla forza e scongiurare il rischio di un nuovo conflitto generalizzato, dalla portata quanto mai incerta.