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Yemen
Attacchi nel Bab el-Mandeb: rischi globali e obiettivi sauditi
Eleonora Ardemagni
31 luglio 2018

Tutti gli occhi erano puntati su Hormuz. Invece, l’incidente che sta già cambiando gli equilibri geopolitici e commerciali dell’area si è verificato in un altro stretto, quello del Bab el-Mandeb: il 26 giugno, l’Arabia Saudita ha annunciato la sospensione temporanea del trasporto petrolifero del regno nello stretto “fino a quando il traffico marittimo non diventerà sicuro”, come dichiarato dal ministro saudita dell’energia, Khalid Al-Falih.

Due le alternative possibili. Riyadh esporterà il suo greggio attraverso la “East-West Pipeline” (Petroline) che collega i giacimenti della regione orientale al terminal di Yanbu, sul Mar Rosso, oltrepassando così l’ostacolo del Bab el-Mandeb. Oppure, il petrolio saudita circumnavigherà l’Africa per raggiungere il Mediterraneo e gli Stati Uniti, con evidenti ricadute in termini di costi e tempi.

Da più di due anni, la sicurezza marittima nel Bab el-Mandeb, lo stretto che congiunge il Golfo di Aden al Mar Rosso, non era più garantita, a causa dell’intensificarsi della guerriglia degli huthi, gli insorti sciiti zaiditi dello Yemen sostenuti dall’Iran[1].

Il 25 luglio scorso, due petroliere con bandiera dell’Arabia Saudita sono state attaccate dagli huthi in acque internazionali: è ormai chiaro che la libertà di navigazione, per chi trasporta petrolio e merci (dunque per qualsiasi nave civile) può essere pesantemente compromessa. La petroliera saudita Arsan, che trasportava due milioni di barili di greggio con destinazione Egitto, ha riportato danni limitati: colpita da un razzo o da un missile, è stata poi scortata da una nave militare di Riyadh nel porto saudita più vicino, Jizan. Nelle stesse acque, il 10 maggio 2018, una nave commerciale turca, Ince Inebolu, che trasportava grano, era stata colpita da un razzo.

Pertanto, se nel 2016 e nel 2017 gli huthi avevano mirato e danneggiato navi militari di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Stati Uniti, l’obiettivo dei ribelli yemeniti si è spostato, nel 2018, anche sulle navi commerciali.

Senza dubbio, il protrarsi della guerra in Yemen ha innalzato i rischi marittimi nel Bab el-Mandeb. Il movimento-milizia degli huthi, che coniuga la guerriglia a lanci di missili, razzi, nonché all’impiego di mine terrestri e marittime, controlla ancora la quasi totalità della costa occidentale yemenita (tra cui la città e il porto di Hodeida): il conflitto non può che riverberarsi nelle acque tra Bab el-Mandeb e Mar Rosso. Indirettamente, sauditi ed emiratini, che bombardano lo Yemen dal marzo 2015 senza alcuna vittoria – né militare né politica – all’orizzonte, sono dunque da considerare co-responsabili della mancata messa in sicurezza di questo snodo geo-economico vitale.

Tuttavia, l’instabilità del Bab el-Mandeb non è un problema solo di Riyadh e Abu Dhabi: da questo stretto passa l’8% delle forniture mondiali di petrolio, ovvero quasi 5 milioni di barili di greggio al giorno, destinazione Europa (2.8 milioni), Medio Oriente e Asia (2 milioni). Certo, per Hormuz ne transita il 30%: ma data la rapida escalation verbale, economica e politica fra Stati Uniti e Iran, l’intera comunità internazionale non può permettersi che due dei tre stretti commerciali fondamentali a livello globale (l’altro è Malacca) si trasformino, contemporaneamente, in archi di crisi.

In più, da una prospettiva politica, Bab el-Mandeb e Hormuz sono già interdipendenti, proprio a causa dell’Iran: “il Mar Rosso, che era sicuro, non lo è più vista la presenza degli Stati Uniti” si è affrettato a dichiarare il Generale Qassem Suleimani, capo degli Al-Quds iraniani, il giorno dopo l’attacco huthi alle navi di Riyadh.

Per i sauditi, il vero problema non è tuttavia il petrolio, bensì le infrastrutture marittime e commerciali. Dal Bab el-Mandeb non passa soltanto il greggio dell’Arabia Saudita, ma lo sviluppo infrastrutturale del regno degli Al-Saud. Dunque, nel medio-lungo periodo, il successo della stessa strategia di diversificazione economica di Riyadh.

Anche per aggirare l’incognita di Hormuz, l’Arabia Saudita sta massicciamente investendo lungo la costa occidentale, da Jizan (al confine con le terre degli huthi nello Yemen settentrionale) fino a Duba (a ridosso del Sinai egiziano), disegnando mega-progetti ormai celebri come NEOM, The Red Sea Project, King Abdullah Economy City, Qiddiya, più l’ammodernamento di porti e impianti industriali già esistenti.

E poi c’è un altro attore che non può permettersi che il Bab el-Mandeb venga sistematicamente perturbato dalle tattiche asimmetriche degli huthi: gli Emirati Arabi Uniti. Con l’export quasi bloccato nel caso Hormuz venisse chiuso (solo l’emirato di Fujairah si trova oltre lo stretto), gli emiratini si proiettano nell’Oceano Indiano: la loro strategia marittimo-commerciale-militare corre proprio nel Bab el-Mandeb, facendo perno su porti e basi militari tra il sud dello Yemen (Aden, Mukalla, l’isola di Socotra) e il Corno d’Africa (Assab in Eritrea e Berbera in Somaliland).  Pertanto, l’aumento del rischio marittimo nello stretto colpisce interessi che, per Abu Dhabi, sono divenuti ormai nazionali.

In questa vicenda rimane, però, un lato oscuro. Gli attacchi degli huthi rappresentano una minaccia globale alla sicurezza marittima ed energetica, poiché colpiscono una via d’acqua di rilevanza e impatto mondiale: perché solo l’Arabia Saudita ha scelto di non solcare più il Bab el-Mandeb e perché lo ha fatto proprio ora, quando almeno un altro attacco contro una sua petroliera era già avvenuto il 3 aprile scorso?

È verosimile che Riyadh stia provando a internazionalizzare la questione della sicurezza marittima tra Mar Rosso e Golfo di Aden: obiettivo raccogliere il maggior sostegno possibile (politico e militare) da parte degli Stati Uniti in chiave anti-Iran e lanciare una nuova offensiva contro gli huthi in Yemen.

Non è un caso che l’incidente del 25 giugno abbia segnato la ripresa delle operazioni militari di Arabia Saudita ed Emirati Arabi nella città yemenita di Hodeida (e nella provincia omonima), sospese dal primo luglio scorso per consentire all’inviato dell’Onu Martin Griffiths di cercare una soluzione diplomatica che scongiurasse una feroce battaglia urbana.

Il Bab el-Mandeb non è più sicuro e questo rappresenta un rischio globale, per tutti, Unione Europea compresa. Occorre tuttavia riconoscere gli obiettivi strategici dell’Arabia Saudita e degli EAU nel quadrante, ovvero la partita geopolitica che si cela ‘dentro’ e ‘al di là’ delle legittime e condivisibili preoccupazioni circa la sicurezza dello stretto.

 

[1] Eleonora  Ardemagni,  “The Shia Maritime Escalation in the Bab el-Mandeb”, NATO Defense College Foundation, Strategic Trends, October 2016; “Yemen, verso l’internazionalizzazione del conflitto”, ISPI Commentary, 12 ottobre 2016

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AUTORI

Eleonora Ardemagni
ISPI Associate Research Fellow

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