Un attentato in piazza Tian’anmen, una cortina di fumo che si leva di fronte al ritratto di Mao, fa notizia e la fa in modo speciale se la polizia cinese ammette (o arriva ad ammettere) la premeditazione del fatto implicandone la matrice “terroristica”. Un secondo attentato, invece, può diventare la spia di una frattura nella pacificazione, sociale e politica, tanto importante per il tradizionale modello di consenso del Partito Comunista Cinese. Ieri mattina, mercoledì 5 novembre, sette o otto ordigni artigianali esplodono a Taiyuan, nelle aiuole antistanti il Comitato provinciale del PCC dello Shanxi, una provincia non eccessivamente distante da Pechino. Il bilancio è di un morto, otto feriti e finestrini degli autobus in frantumi. Il rapido intervento della polizia ha già ricollegato l’atto a un generico malcontento nei confronti della corruzione e, per l’appunto, la clamorosa azione coinciderebbe con l’arrivo in città di ispettori governativi incaricati di controllare le finanze dell’amministrazione locale.
La stampa straniera, però, non ha potuto fare a meno di ricollegare queste ultime esplosioni all’incidente di Tian’anmen di lunedì 28 novembre, poco meno di due settimane prima. Non si tratta soltanto del terrorismo uyghuro, la popolazione di origine turca dello Xinjiang accusata dell’attentato di Pechino, ma anche della situazione di una Cina che si avvia verso il cambiamento a passi incerti. I due attentati sono infatti estremamente vicini all’apertura del Terzo Plenum del 18° Comitato Centrale, previsto per il 9-12 novembre e largamente pubblicizzato in Cina come un «master plan for reform» (Xi Jinping) dalla «unprecedented» incisività (Yu Zhengsheng). I Plenum dei Comitati Centrali riuniscono le forze al potere con quella parte della leadership cinese che, pur influente, non ricopre vere e proprie cariche. Nella storia cinese, il Terzo Plenum di un Comitato Centrale, che cade solitamente nel primo anno dopo l’elezione del Congresso Nazionale di partito, è solitamente quello che indica le linee guida dell’economia cinese dei successivi cinque anni, come accadde nel 1978 con Deng Xiaoping che guidava la Cina verso l’apertura al mercato.
Xi Jinping ha fatto proprio della lotta alla corruzione uno dei suoi cavalli di battaglia. Una particolare risonanza hanno avuto le sessioni di autocritica, episodi tipici della sofferta Rivoluzione Culturale, che sono state riesumate quest’anno da Xi nello Hebei. Anche le riforme economiche e, in particolare, il recente viaggio nel Sud-est asiatico di Xi e di Li Keqiang sono l’altro tema caldo nella Cina che, per continuare a crescere economicamente, deve andare verso un cambiamento strutturale. Non tutti i dirigenti di partito sembrano essere d’accordo: China 2030, il report congiunto della Banca Mondiale e del Development Research Center, un think-thank del Consiglio di Stato, ha dovuto attendere parecchi mesi per essere tradotto in cinese. Promotore del documento era Liu He, un seggio nel Comitato Centrale, vice-presidente della Commissione sulle riforme e, soprattutto, uno degli uomini chiave scelti da Xi per il nuovo corso del sistema produttivo nazionale. Il Piano 383 (3 concetti chiave, 8 ambiti di riforma economica e 3 combinazioni economiche correlate), la Free Trade Zone di Shanghai e le voci sulle liberalizzazioni in riferimento al meccanismo di vendita dei terreni agricoli hanno dato adito a svariate speculazioni, ma poco si sa di certo rispetto a quello che uscirà dal Terzo Plenum, sempre tenendo presente che, storicamente, la Cina ha affrontato i cambiamenti con gradualità e con una certa dose di sperimentalismo. Sinora.
Secondo alcuni commentatori, potrebbe cambiare qualcosa anche politicamente, quantomeno all’interno della frastagliata geografia del Partito Comunista Cinese. La figura di Xi Jinping, segretario generale del Partito Comunista e presidente della Repubblica, è inevitabilmente tesa tra partito e stato: la lotta alla corruzione potrebbe allora essere l’altra faccia della medaglia, la ricerca di un maggior potere sul governo da parte di quello che, come leader di partito, è anche il vertice politico cinese. Deng Xiaoping, al contrario del suo predecessore Mao Zedong, non s’impose mai come leader di partito, ma optò per una gestione collegiale, ad esempio abolendo la carica di “presidente” in favore di quella di “segretario generale”. Oggi, le possibili trasformazioni della cosiddetta “democrazia interna al partito” e, in sostanza, dei meccanismi di policy making potrebbero essere la chiave per un reale cambiamento della Repubblica Popolare. Non esistono garanzie del fatto che Xi riuscirà ad avere la meglio sulle resistenze interne né che queste opposizioni siano soltanto quelle di una burocrazia cancerogena, ma sicuramente il Partito ha un obiettivo che non può ignorare e consiste nella ricostruzione della sua legittimazione politica e del suo consenso fra le nuove generazioni cinesi.