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POLITICHE INDUSTRIALI

Auto elettrica: è guerra di sussidi

Alberto Guidi
20 gennaio 2023

Per l’automotive il 2022 ha confermato tutte le difficoltà registrate nel 2021. Strozzature delle catene di approvvigionamento e 'inflazione record si sono tradotte in circa 200 miliardi di dollari di minori vendite globali, scese sotto i 2 trilioni di dollari, ai livelli del 2014. In una situazione difficile per il settore spicca la performance controcorrente dei veicoli elettrici (plug-in e full electric) le cui vendite dovrebbero aver rappresentato, secondo le stime dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, il 13% di quelle globali del comparto auto: in crescita rispetto al 9% registrato lo scorso anno.

L’elettrico rappresenta quindi un’isola felice, centrale per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione nazionali, su cui si sta non a caso scatenando una competizione geopolitica sempre più intensa. Una guerra combattuta a suon di sussidi. A partire da quelli previsti dall’Inflation Reduction Act (IRA) americano che potrebbe portare a stravolgimenti del mercato per come lo conosciamo. Quali sono le ragioni dietro questa politica industriale aggressiva americana nel mercato delle auto elettriche? Quale la risposta europea? E come si pone questa competizione transatlantica nel contesto della ricerca di un’autonomia strategica da Pechino?

 

Cara Tesla

Nel 2022 negli USA le vendite di auto elettriche sono cresciute del 60%, e ciò nell’anno peggiore dell’ultimo decennio per l'intero comparto automobilistico domestico. Ma, nonostante la performance positiva, rappresentano ancora una fetta molto piccola, il 6% di tutte le nuove auto vendute negli USA. Ovvero gli Stati Uniti restano ancora molto indietro rispetto all’obiettivo recentemente annunciato dall’amministrazione Biden: metà delle vendite di auto nuove nel Paese costituita da veicoli elettrici entro il 2030. E sono indietro nell’adozione dell’elettrico rispetto alla Cina dove quasi una nuova auto venduta ogni tre è elettrica (ma anche rispetto all’Europa dove la penetrazione dell’elettrico è pari al 15%).

Questa differenza si può spiegare soprattutto guardando ai prezzi medi di un’auto elettrica nei due Paesi. Negli Stati Uniti si spendono mediamente 66mila dollari per portarsi a casa un’auto elettrica. Una cifra cresciuta di 15mila dollari solo nell’ultimo anno e del 38% superiore al prezzo medio di un’auto con motore termico. In Cina invece questo differenziale dei prezzi tra mercato elettrico e tradizionale è solo del 10%. Per poter essere competitiva nel mercato cinese, Tesla qui vende la sua Model 3 al 30% in meno che negli USA.

In soccorso dei produttori americani l’amministrazione Biden ha varato l’Inflation Reduction Act (IRA) che include 369 miliardi di dollari (circa un quinto del Pil italiano) per incentivi finanziari a sostegno della transizione verde. Nel caso dei veicoli elettrici, i principali incentivi sono due programmi di credito d’imposta al consumo (uno per gli operatori commerciali e uno per i consumatori privati) che prevedono anche prescrizioni sulla provenienza locale dei pezzi, sulla produzione o sull’assemblaggio. I cittadini americani possono quindi beneficiare di uno sconto fino a 7.500 dollari per l’acquisto di una nuova auto elettrica, ma a condizione che una buona parte della batteria sia realizzata negli Stati Uniti, in Canada o in Messico.

 

Net-Zero Industry Act

Il pacchetto statunitense ha suscitato una forte preoccupazione fra i Paesi membri dell’Unione europea.  Il Commissario UE per il Mercato interno, Thierry Breton, è arrivato persino a definirlo “una sfida esistenziale all’economia europea”. Il timore di Bruxelles è che la legislazione americana, distorca la competizione e inneschi una fuga di investimenti e di aziende dal mercato europeo a beneficio di quello americano. Un timore non infondato. Grazie all’IRA, la costruzione di una nuova fabbrica di batterie elettriche negli Stati Uniti viene sussidiata con fino a 800 milioni di dollari. La stessa fabbrica in Europa riceverebbe “solo” 155 milioni di dollari.

Per far fronte a questo squilibrio competitivo, il 25 ottobre 2022, l’UE ha istituito una task force congiunta con gli USA per discutere l’IRA, con l’obiettivo di spingere la controparte a modificarne alcuni degli aspetti più distorsivi. Il 29 dicembre scorso, dopo mesi di trattative diplomatiche, l’Unione europea è riuscita a strappare una prima apertura. Nel white paper pubblicato dal Dipartimento del Tesoro americano, tra i Paesi beneficiari degli sgravi per i veicoli commerciali puliti (Commercial Clean Vehicle Credit scheme) sono indicati tutti quelli che hanno un accordo di libero scambio con gli USA. Non esistendo una definizione ufficiale univoca di tali accordi la si può espandere fino a comprendere anche i Paesi UE e quindi le case automobilistiche europee. Che tuttavia resterebbero ancora escluse dal principale credito d’imposta sui veicoli elettrici per i consumatori privati valido solo se l’assemblaggio finale dell’auto avviene in Nord America.

Ecco perché a Davos, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha annunciato che nelle prossime settimane presenterà il Net-Zero Industry Act: la risposta europea all’IRA. Il pacchetto di misure dovrebbe includere una semplificazione delle autorizzazioni per i nuovi siti di produzione di tecnologie pulite e sgravi fiscali per l'industria verde. E si affiancherà a norme più snelle sugli aiuti di Stato per le imprese green. Per non innescare forme di concorrenza sleale all’interno della stessa UE, con il rischio di frammentare il mercato unico, la Commissione presenterà poi nel quadro della revisione del bilancio di fine anno, un nuovo fondo sovrano europeo.  Ovvero finanziamenti comunitari con cui anche gli Stati membri che non dispongono dello spazio di bilancio delle principali economie possano permettersi di sovvenzionare la transizione verde. Tuttavia, non sembra al momento esserci consenso tra i ministri delle Finanze europei sulle modalità di finanziamento di tale fondo comune, né sulla sua entità, e alcune capitali - guidate da Berlino - si oppongono a una nuova ondata di fondi comunitari.

Lo stallo sta portando alcuni Stati membri a muoversi da soli. In particolare, la Francia è in prima linea nello spingere per una politica industriale europea più dirigista. Già a fine novembre, il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, in un comunicato congiunto con il suo corrispettivo tedesco, chiedeva in risposta all’IRA un nuovo impulso alla politica industriale europea. Nelle scorse settimane ha poi annunciato l’intenzione di attuare pesanti modifiche alla tassazione e regolamentazione francese per accelerare la crescita dei settori a basse emissioni di carbonio.

Insomma, sia a livello nazionale che sovranazionale, il messaggio è che l’UE non intende rimanere inerme di fronte a una politica industriale americana più protezionista. Ma la vera minaccia arriva da Pechino.

 

Tra i due litiganti….

Circa il 40% del valore di un veicolo elettrico risiede nella batteria. Come dichiarato da Thomas Schmall, responsabile della tecnologia di Volkswagen, la competizione nel mercato dei veicoli elettrici si giocherà quindi proprio sui costi delle batterie. La cui domanda complessiva passerà da quella attuale di 290 gigawattora a 3,4 terawattora all'anno entro il 2030.

La Cina sembra in netto vantaggio nel soddisfare questa futura domanda e acquisire così il predominio del mercato dell’elettrico. Pechino è leader nella raffinazione della maggior parte dei materiali necessari lungo tutta la catena di produzione delle batterie elettriche: rappresenta il 35% di tutto il nichel raffinato nel mondo, il 58% per il litio e il 65% per il cobalto. Percentuali che si traducono in un primato anche nell'imballaggio e nell'assemblaggio delle celle delle batterie. Dei primi 10 produttori di batterie per veicoli elettrici sei sono cinesi, con una quota di mercato pari al 56% del totale, ben più alta di quella dei restanti principali produttori, coreani (26%) o giapponesi (10%).

Due aziende cinesi in particolare rappresentano metà delle vendite globali del mercato: CATL e BYD. La prima è fornitrice di Tesla e Volkswagen e, ad agosto ha stretto un nuovo accordo da  8 miliardi di euro con Mercedes. Le cui future auto elettriche assemblate in Europa monteranno batterie fabbricate nello stabilimento di CATL a Erfurt (Germania), il primo al di fuori della Cina, a cui si affiancherà un nuovo impianto di produzione in Ungheria. BYD ha invece un accordo di fornitura con Stellantis, e starebbe ponderando l’apertura di nuove fabbriche in Francia e Spagna. Se l’attuale trend dovesse continuare, entro il 2031 la Cina avrà più capacità produttiva di batterie elettriche in Europa (il secondo mercato più grande per i veicoli elettrici) di qualsiasi altro Paese.

Negli Stati Uniti, l'Inflation Reduction Act prevede una clausola specifica per contrastare il rischio di una eccessiva dipendenza dalla Cina nel mercato delle batterie elettriche: impedisce alle auto che contengono tecnologia proveniente da una "entità straniera di interesse" di ricevere incentivi al consumo, rendendole così più costose. Parallelamente, lo scorso ottobre l'amministrazione Biden ha assegnato 2,8 miliardi di dollari in fondi a 20 società per progetti minerari nazionali critici. Lato europeo bisognerà aspettare invece i primi di febbraio per conoscere i dettagli del Net-Zero Industry Act. Un ulteriore mese sarà necessario per conoscere i contenuti del Critical Raw Materials Act annunciato dalla Commissione per l’8 marzo. Su questi due pacchetti di misure si giocherà gran parte dell’indipendenza strategica dell’UE. Un’indipendenza che, al di là della competizione con gli USA sui sussidi (su cui sono state spese tante parole dalle figure apicali dell’Unione) passa soprattutto da una risposta alla leadership cinese sul fronte del mercato delle batterie elettriche. 

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AUTORI

Alberto Guidi
ISPI

Image Credits (CC BY 2.0): Maurizio Pesce

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