Dopo la visita dello scorso 24-27 marzo, Barack Obama è tornato in Europa per partecipare alla riunione del G7 di Bruxelles (4-5 giugno) e alle celebrazioni per il settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia (6 giugno). Questo in un momento in cui, nonostante gli esiti delle elezioni del 25 maggio scorso (o, forse, proprio a causa di quelli) la tensione in Ucraina è tornata a crescere e la violenza sembra avere sperimentato una nuova impennata. In questo quadro (aggravato dall’apparente refrattarietà di Mosca alle sollecitazioni della diplomazia) non stupisce che – nelle sue dichiarazioni – il presidente abbia ripetutamente richiamato la necessità di un maggiore impegno europeo nel settore della Difesa, né che, a fronte di tale richiesta, abbia annunciato la disponibilità statunitense ad accrescere in maniera consistente la presenta americana nel Vecchio Continente. Parimenti, non stupisce che, quasi contemporaneamente, il vertice dei ministri degli Esteri della Nato abbia ribadito la nuova enfasi attribuita dall’Alleanza al tema della sicurezza collettiva proprio sull’onda della crisi in corso fra Russia e Ucraina.
Indipendentemente dalle ricadute che potrà avere sulle posizioni russe, quest'apparente unità d’intenti lascia tuttavia aperto più di un interrogativo. Per l’Europa (alle prese anche con gli esiti delle elezioni per il rinnovo del Parlamento e con le incognite che essi sollevano in vista del rinnovo della Commissione) la crisi ucraina si è già dimostrata una issue profondamente divisiva, e se il passare del tempo ha finito per smorzare i toni delle prime settimane, pure non sembra essere riuscito a comporre le divergenze sottostanti. Quanto agli Stati Uniti, l’acuirsi delle tensioni con Mosca ha costretto l’amministrazione ad aprire un nuovo fronte di crisi in un periodo in cui, da una parte sarebbe stata sua intenzione rafforzare (rilanciare?) un ‘pivot to Asia’ apparentemente dimenticato di fronte alle evoluzioni (non sempre positive) dello scenario mediorientale, dall’altra ridimensionare un’esposizione militare che, per il presidente Obama, costituisce, oltre che una fonte di spesa indesiderata in vista delle elezioni di midterm, il contraltare di una politica che vorrebbe presentare come più multilateralista e ‘dialogante’.
Dal punto di vista dell’Alleanza Atlantica, la rinnovata centralità della sicurezza collettiva costituisce, dopo gli anni della Nato deployed (in particolare in Afghanistan), l’occasione per riaffermare la centralità della Nato prepared e per tornare a rivolgersi a ciò che l’organizzazione considera il suo ‘core business’. Significativamente, questo riposizionamento strategico corrisponde da un lato alla fine dell’esperienza di Isaf, con il relativo, consistente ridimensionamento della presenza out of area dell’Alleanza, dall’altro a una fase di prolungata contrazione dei bilanci della Difesa in molti Stati membri. Uno degli effetti di queste dinamiche è, tuttavia, quello di favorire lo spostamento degli equilibri interni all’Alleanza stessa non solo a favore dei paese più impegnati sul fronte della spesa, ma anche – e in modo solo apparentemente paradossale – di quelli percepiti come più minacciati. Le critiche recentemente mosse dal primo ministro polacco alla politica energetica tedesca, accusata di accrescere la vulnerabilità europea alle pressioni di Mosca, rappresentano un segnale indicativo delle trasformazioni in atto.
Rimane aperto l’interrogativo se quest'evoluzione abbia un carattere strutturale o sia il ‘semplice’ prodotto dell’attuale fase di tensione internazionale. Al di là dell’apparente stallo negoziale, ogni soluzione dell’impasse ucraino non potrà che essere basata sul negoziato fra le parti. Kiev non ha interesse a diventare la propaggine orientale di un'Europa posta di fronte a una Russia ostile, così come Washington non può permettersi – politicamente prima ancora che militarmente – di impegnarsi in uno sforzo a tempo indeterminato per garantire la sicurezza dei partner dell’Europa centro-orientale. Al di là degli sforzi compiuti per differenziare la propria postura internazionale, Mosca stessa è legata all’Europa da un intreccio di relazioni troppo complesso per essere riorientato nel breve periodo. Anche l’accordo di fornitura concluso il 21 maggio scorso da Gazprom e dalla compagnia petrolifera di stato cinese Cnpc, nonostante la durata e i volumi interessati, riguarda soprattutto le riserve dei giacimenti della Siberia orientale e non influisce sulla necessità russa di giocare la sua partita energetica su due tavoli separati.
In questa prospettiva, la situazione appare, quindi, tutt’altro che definita. La politica ‘del bastone e della carota’ portata avanti dall’amministrazione Obama nei confronti di Mosca, fatta di irrigidimenti e di (cauti) inviti al dialogo, è forse il migliore indicatore della fluidità oggi esistente nelle relazioni fra Stati Uniti e Russia. Il fatto che anche sul campo fatichi a emergere un equilibrio accettabile fra le fazioni in lotta accentua questa situazione, così come l’accentua la postura dell’Alleanza Atlantica, che negli ultimi mesi – in dichiarata applicazione del principio di sicurezza collettiva – ha aumentato notevolmente gli assetti schierati alle sue frontiere orientali. Al di là degli irrigidimenti negoziali, una soluzione ‘di compromesso’ sarebbe forse quella più adatta a soddisfare gli interessi degli attori maggiori e, per certi aspetti, a garantire il futuro della stessa Ucraina e dei sui rapporti con la UE. Non è però chiaro quanto questi soggetti possano ancora esercitare un controllo effettivo sulla posizione dei loro junior partner, ai quali l’attuale stato di cose offre spazi d’azione largamente inattesi all’inizio della crisi.