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Golfo
Bahrein al voto, prigioniero della geopolitica
Eleonora Ardemagni
| 19 novembre 2018

Il Bahrein che attende le elezioni legislative e municipali del 24 novembre prossimo (eventuale secondo turno il 1 dicembre), è un paese prigioniero della geopolitica e delle sue logiche: fino a quando Arabia Saudita e Iran continueranno a sfidarsi per l’egemonia in Medio Oriente e la frattura intra-Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) con il Qatar non sarà risolta, la transizione di Manama verso una compiuta monarchia costituzionale rimarrà un’utopia. Da una prospettiva sistemica, lo status quo del Bahrein è inoltre favorito dal ruolo di crocevia marittimo globale che il Golfo ha assuntonell’ultimo decennio, a causa della crescente proiezione commerciale e politica delle potenze asiatiche, come Cina e India.

Nonostante i problemi di bilancio e le forti diseguaglianze economico-sociali fra cittadini sunniti e sciiti (il rapporto è di circa 70 a 30), la campagna elettorale in Bahrein è stata caratterizzata dal tema delle interferenze esterne, dunque dai riflessi, velenosi, della geopolitica mediorientale. Due notizie hanno gettato ulteriore luce sulla strategia politico-mediatica degli Al-Khalifa. Dapprima, 169 persone sono state imputate di terrorismo dalle autorità di Manama (111 di esse incarcerate), con l’accusa di voler formare una cellula bahreinita di Hezbollah; poi, Shaykh Ali Salman, il leader già incarcerato della principale società politica sciita del paese, Al-Wefaq, è stato condannato all’ergastolo in secondo grado (in precedenza era stato assolto), con l’accusa di spionaggio a favore del Qatar, che avrebbe complottato per diffondere l’instabilità nel piccolo regno.

In Bahrein, le urne non potranno che riaffermare gli attuali equilibri di potere, consolidati dalla monarchia coniugando esclusione e cooptazione. Al-Wefaq è stato sciolto dalle autorità di Manama nel 2016, così come il più secolare National Democratic Action Society (Waad) nel 2017; i salafiti di Al-Asala e Al-Menbar, la branca locale dei Fratelli Musulmani, sostengono la monarchia sunnita. Inoltre, re Ahmad ha decretato che i membri delle disciolte società politiche non possono candidarsi alle elezioni. 

Dunque, in uno scenario elettorale così blindato, il dato più interessante sarà quello dell’astensione sciita: Al-Wefaq (con un comunicato da Londra) e altri movimenti di opposizione hanno invitato al boicottaggio, come già nel 2014, quando gli sciiti bahreiniti disertarono le prime consultazioni dalla grave rivolta, poi repressa, del 2011. Coloro che invitano all’astensione denunciano l’utilizzo di un tradizionale strumento di “ingegneria elettorale”: infatti, la legge elettorale del Bahrein sotto-rappresenta le circoscrizioni popolate prevalentemente dalla maggioranza sciita e sovra-rappresenta quelle in cui risiede la minoranza sunnita.

Poche settimane prima del voto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Kuwait hanno ufficializzato il nuovo pacchetto di aiuti economici al Bahrein (il primo fu nel 2011). Saranno 10 i miliardi di dollari per Manama, fortemente allineata alla politica estera della diarchia Arabia-Emirati: ovvero un assegno molto più generoso di quello staccato lo scorso giugno per la “poco allineata” Giordania, che ha quasi 10 milioni di abitanti rispetto agli 1,5 milioni dell’arcipelago del Golfo. 

Questa mossa intende cristallizzare il quadro interno: Manama è l’anticamera geografica del regno saudita. In cambio, il governo bahreinita dovrà però procedere a nuovi tagli di spesa, riducendo i sussidi ai cittadini, sfoltendo il sovraffollato settore pubblico e introducendo l’IVA al 5% dal 2019. I dati economici inchiodano il Bahrein a una realtà scomoda, la peggiore del CCG: nel 2017, il deficit ha raggiunto il 14% del prodotto interno lordo (PIL), mentre il debito è ormai pari al 90% del PIL. 

Senza l’aiuto economico delle monarchie vicine, il regno degli Al-Khalifa non potrebbe sostenersi: nonostante gli sforzi per diventare hub regionale della finanza, due terzi delle sue entrate provengono ancora dalla rendita petrolifera e parte dei suoi giacimenti sono co-gestiti con l’Arabia Saudita, da cui Manama dipende per la produzione. Pertanto, Manama e Riyadh sono legate “a doppia mandata”, anche a livello di sicurezza: significativa, seppur scontata, la presenza dei bahreiniti ad Arab Shield 1, le imponenti esercitazioni militari congiunte terrestri-aeree-navali cui stanno partecipando Arabia, Emirati, Kuwait, Egitto, Giordania (oltreché Marocco e Libano come osservatori) nell’ovest egiziano. 

Da una prospettiva geostrategica, la pressione interna sulla monarchia sunnita è cresciuta parallelamente all’attrattività finanziaria dell’arcipelago e dell’intero Golfo, nella stagione della “Via della seta” cinese e delle contromosse indiane: il Bahrein ha appena siglato otto accordi con la Cina su finanza, tecnologia e trasporti, mentre con l’India sono state da poco raggiunte intese su sanità ed energie rinnovabili. Il primo ministro indiano Narendra Modi harecentemente definitoil Bahrein un “modello di moderazione religiosa e coesistenza pacifica”.

Mai come ora, Manama è – a seconda dei punti di vista – prigioniera della polarizzazione geopolitica, oppure protetta dalle rivalità incrociate mediorientali, che ne cristallizzano gli equilibri di potere. E pensare che anche in Bahrein, come nel caso siriano, la rivolta del 2011 non nacque come una contrapposizione settaria: nella prima fase di mobilitazione,c’erano anche dei sunniti a manifestare contro la corruzione e le riforme mancate degli Al-Khalifa. Ma quando la connotazione sciita della piazza si fece più forte (per esempio, con i cortei portati nei quartieri residenziali sunniti di Manama), i sunniti abbandonarono la protesta. 

Di certo, alla vigilia delle elezioni, sembrano rimanere poche tracce del percorso di riforma economica e del Dialogo Nazionalei ntrapreso, dal 2011 al 2014, dal 49enne principe ereditario (nonché vice primo ministro) Salman bin Ahmad. Ma lungo la sponda arabica del Golfo, sono oggi gli “uomini d’azione”, come il saudita Mohammed bin Salman e l’emiratino Mohammed bin Zayed, non certo gli “uomini del dialogo” come l’erede al trono del Bahrein, a dettare i tempi e i modi dell’azione politica. 

 

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Tags

Bahrain Elezioni geopolitica

AUTORI

Eleonora Ardemagni
ISPI Associate Research Fellow

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