La Serbia è uno dei paesi europei che sta procedendo meglio nella campagna vaccinale. Al 28 marzo, i dati riportano che è seconda in Europa dopo il Regno Unito, e settima a livello mondiale. Le ragioni di tale performance sono due. Innanzitutto, a gennaio la Serbia è stato il primo paese europeo a ricevere due milioni di dosi del Sinovac, il vaccino cinese, che ora è disponibile in grandi quantità insieme a tutti gli altri principali vaccini. Il secondo motivo riguarda l’organizzazione della campagna, gestita attraverso un sistema di amministrazione digitale chiamato “eUprava”, che dunque non è stata preda dell’inefficienza delle procedure pubbliche del paese. Un sms di eUprava indica data, ora e luogo dell’iniezione, e conferma il vaccino scelto. Insieme a quello cinese, infatti, in Serbia sono presenti anche gli “occidentali” Pfizer e AstraZeneca, oltre che il russo Sputnik V. Un’ampia possibilità di scelta che oltre a riconfermare l’ormai decennale oscillazione di Belgrado tra est e ovest, scopre il volto pratico della cosiddetta diplomazia del vaccino. In un momento di affanno a livello continentale, fatto di ritardi e accordi non rispettati, i numeri dell’immunizzazione serba – al momento circa un terzo della popolazione ha ricevuto almeno la prima dose – fanno invidia a molti paesi. Specialmente quelli della regione. Il resto dei Balcani è infatti molto indietro nella campagna vaccinale e, se non fosse proprio per la Serbia, alcuni non avrebbero nemmeno una fiala di vaccino.
Se la Cina è vicina, il vaccino è ancora più vicino
La campagna vaccinale sta aiutando il presidente serbo Aleksandar Vucic a consolidare, soprattutto agli occhi dell’Occidente, la propria immagine di leader regionale, al netto di standard democratici che sono in caduta libera da quando è lui al governo.
Nelle scorse settimane, la Serbia ha donato agli altri paesi dei Balcani alcune migliaia di dosi, consegnate spesso da Vucic in persona: 10mila vaccini AstraZeneca alla Federazione di Bosnia-Erzegovina (una delle due entità che compongono la Bosnia-Erzegovina; l’altra, la Republika Srpska, ha ricevuto 22mila dosi dello Sputnik dalla Russia); 8mila alla Macedonia del Nord; e 2mila Sputnik per il Montenegro. Le donazioni della Serbia sono arrivate con settimane di anticipo rispetto alle prime consegne attivate dal meccanismo COVAX, e, per quanto si tratti di poche migliaia di fiale, hanno comunque fornito un importante aiuto agli operatori sanitari bosniaci, macedoni e montenegrini, che lavorano in sistemi ospedalieri tra i più colpiti se si considera il tasso di ricoveri per COVID-19 in proporzione alla popolazione.
Le donazioni della Serbia non riguardano il Sinovac, il che lascia pensare che le autorità di Pechino abbiano specifici accordi con Belgrado affinché il vaccino non sia esportato. Dopo la consegna dello scorso 5 marzo – il compleanno di Vucic – di un altro milione di dosi cinesi, la Serbia ora dispone di un buon quantitativo per portare avanti l’immunizzazione nazionale e, contemporaneamente, donare gli altri tipi di vaccino, presenti in quantità inferiori, ai paesi della regione.
Ma la strategia serba non si ferma qui. Sul lungo periodo, Belgrado pianifica di produrre localmente il Sinovac. La notizia era stata data da Vucic dopo la sua recente visita negli Emirati Arabi Uniti, che aiuteranno la Serbia per l’avvio entro ottobre della produzione del vaccino della Sinopharm. Una mossa che fa seguito a quella con cui Belgrado ha accordato di produrre lo Sputnik russo presso gli istituti farmaceutici del paese. Si tratta di accordi che si inseriscono in una strategia di lungo periodo che consentiranno alla Serbia di estendere le relazioni a livello regionale partendo dal rifornimento di vaccini.
Dalla diplomazia al turismo
Lo scorso fine settimana migliaia di cittadini bosniaci, montenegrini e macedoni hanno oltrepassato il confine per potersi vaccinare in Serbia. Un’iniziativa organizzata dalla Camera di Commercio serba pensata per chi lavora nel mondo degli affari a livello regionale ma che ha riguardato anche altre categorie e ha visto l’arrivo di centinaia di autobus pieni di persone da tutta la regione. Questi erano stati precedentemente invitati dalla premier Ana Brnabic affinché le circa 20mila dosi di AstraZeneca in scadenza a inizio aprile non andassero perdute.
Uno dei punti a favore della campagna vaccinale serba è proprio quella di non discriminare nessuna categoria: tutti possono prenotare attraverso eUprava il proprio vaccino, senza distinzioni di età, categoria sociale o – appunto – cittadinanza. Anche diversi rifugiati dei centri d’accoglienza sono stati vaccinati. L’unica condizione è possedere un numero di telefono serbo per poter ricevere l’sms dal sistema d’amministrazione digitale.
La Serbia sta quindi sperimentando l’avvio di un “turismo vaccinale”, innanzitutto regionale, che sul lungo periodo potrebbe portare anche altri vantaggi, anche in virtù degli ancora esistenti legami personali tra cittadini dell’ex Jugoslavia, che in Belgrado ritrovano pur sempre la loro vecchia capitale.
Ma in ambito turistico Vucic sogna in grande. Mentre a livello europeo si discute la possibilità di limitare il turismo a coloro che hanno ricevuto un vaccino approvato dall’EMA, il presidente serbo definisce “scandalosa” tale eventualità, anche se sarebbe una grande opportunità per la Serbia. “Farò il vaccino cinese dopo aver sentito che esiste la possibilità che prendano questa decisione, – ha dichiarato riservando dubbi circa la concretezza di tale disposizione dell’UE, aggiungendo che – la Serbia sarà aperta a tutti i turisti, inviteremo 1 miliardo e 300 milioni di cinesi, 140 milioni di russi, tutta l’America Latina, tutta l’Africa, il Golfo Persico e i cittadini turchi che ricevono il vaccino cinese”.
Da un punto di vista geopolitico, la diplomazia dei vaccini della Serbia rischia di approfondire il solco tra l’Unione Europea, al cui interno la campagna vaccinale procede a ordine sparso, e la regione dei Balcani occidentali, sempre più distante dalla prospettiva di una rapida integrazione UE. Un solco che potrebbe essere colmato dalla Cina nel suo progressivo avvicinamento all’Europa, non solo nell’assistenza contro la pandemia, ma anche in altri strategici settori di carattere commerciale.