Le elezioni di medio termine in Argentina, svoltesi domenica 14 novembre, hanno conosciuto un esito in larga parte annunciato. L’importante appuntamento – volto a rinnovare metà della Camera dei Deputati e un terzo del Senato – ha visto la sconfitta della coalizione di governo Frente de todos (di stampo peronista, guidata dal Presidente Alberto Fernández) per otto punti percentuali nei confronti dell’opposizione di centro-destra, la coalizione Juntos per el cambio dell’ex Presidente Mauricio Macri (che aveva già “vinto” le elezioni primarie di settembre con il 40% dei consensi rispetto al 31% dei partiti di governo). Per la prima volta dal 1983, i peronisti hanno perso la maggioranza al Senato, mentre la già debole maggioranza alla Camera bassa si è assottigliata ulteriormente ed è ora scesa a soli 5 seggi di differenza rispetto all’opposizione (120 contro 115). Un risultato molto significativo, che potrebbe essere letto come una “anticipazione” delle elezioni Presidenziali che si terranno nell’autunno 2023.
Un esito già scritto, si diceva: del resto, l’esecutivo non si era dimostrato in grado di trovare una soluzione agli ormai cronici problemi dell’Argentina: inflazione a doppia cifra (che quest’anno ha toccato il 52%), debito pubblico sempre meno sostenibile, carenza di investimenti esteri ed eccessiva dipendenza dell’economia dal settore primario. La pandemia non ha di certo aiutato, ma il governo peronista ha cercato di affrontare gli stessi problemi con ricette che avevano già dimostrato di non poter funzionare. Tuttavia, se in passato l’Argentina era sempre riuscita a nascondere i problemi sotto al tappeto sfruttando l’alternanza dei cicli economici internazionali, oggi le cose potrebbero essere più complicate, se la rotta non dovesse essere invertita. Sarà dunque fondamentale per il Governo cercare di cambiare la tendenza nei prossimi due anni al fine di conquistare una conferma elettorale che, al momento, sembra molto difficile da ottenere.
L’economia in un circolo vizioso
Le elezioni di medio termine si sono svolte in un momento non facile per l’economia argentina. Non basta infatti l’innalzamento delle previsioni di crescita del Pil, in larga parte dovuto al rincaro delle materie prime, dal 6,4% di luglio al 7,5% di ottobre nel World Economic Outlook del FMI a delineare un quadro positivo per l’economia del Paese sudamericano. La stessa proiezione di crescita per il 2022 è solo del 2,5%, un valore che segnala come la ripresa per Buenos Aires si limiti sostanzialmente a un rimbalzo post-pandemico. Complice il crollo del Pil del 10% nel 2020, l’OCSE non si aspetta un ritorno dell’Argentina ai livelli pre-crisi fino al 2025-2026, ultima per distacco tra i membri del G20 a recuperare dalla crisi pandemica.
L’economia argentina, del resto, è afflitta cronicamente da un alto tasso di volatilità che ha visto – dal 2009 a questa parte – l’alternarsi di periodi di crescita e di recessione, al punto che il livello attuale del Pil è praticamente lo stesso di un decennio fa. Il sistema economico è ancora eccessivamente dipendente dall’esportazione di commodities agricole (che costituiscono il 67% dell’intero export di beni), settore in cui l’Argentina ha un vantaggio competitivo ma che è costantemente in balia degli ondivaghi prezzi internazionali. Inoltre, gli investimenti esteri languono e sono in costante diminuzione da alcuni anni: -38% nel 2020 rispetto all’anno precedente, quando però i flussi di IDE si erano già ridotti di circa il 40%. Inoltre l’inflazione rimane una preoccupazione costante per le autorità finanziarie di Buenos Aires, avendo raggiunto in settembre un aumento cumulato del 53% su base annua. E sembra che nemmeno il decreto che ha fissato i prezzi di oltre 1.400 prodotti fino a gennaio sia stato in grado di arrestare una dinamica che – questa volta – è in atto a livello globale.
La svalutazione della moneta nazionale è l’altra faccia della medaglia di questa situazione: al di fuori dei circuiti ufficiali il peso argentino viene già scambiato a quasi due volte il tasso ufficiale di 99 pesos per un dollaro USA. Tuttavia, mentre il peso si trova in caduta libera sul mercato nero, il Governo ha cercato negli ultimi mesi – in maniera artificiosa – di mantenere stabile il tasso di cambio ufficiale per non dare un segnale negativo in vista delle elezioni, ma anche nel tentativo di evitare un ulteriore scossone a un’economia già sofferente. In un Paese dove, secondo gli ultimi rilevamenti della Banca Mondiale, oltre il 40% della popolazione vive in condizioni di povertà – e più del 10% degli argentini si trova oggi in condizione di povertà assoluta – un ulteriore indebolimento del potere d’acquisto dei cittadini sarebbe deleterio.
L’ombra del default e i difficili negoziati con il FMI
La situazione argentina è ulteriormente aggravata dalla problematica del debito pubblico e dal contenzioso con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) sul pagamento degli interessi dell’ultimo programma di salvataggio. Nel 2018, l’Argentina dell’allora presidente Mauricio Macri ottenne dal FMI un prestito di emergenza equivalente a 57 miliardi di dollari, il più alto mai erogato dall’istituzione finanziaria internazionale e ben superiore alla quota argentina nel Fondo. Le rigide condizioni che accompagnavano il finanziamento non sono però state rispettate neppure prima della pandemia (nel 2019 il deficit pubblico, seppur in diminuzione, si è attestato al 4% del Pil, contro il pareggio di bilancio richiesto dal Fondo) e la crisi causata dal Covid-19 ha reso impossibile ogni rientro secondo i parametri negoziati in precedenza. Inoltre, secondo il governo peronista di Buenos Aires la necessità di stimolare la ripresa economica ha assunto netta priorità sul rispetto degli impegni presi in precedenza verso i creditori istituzionali, al punto da dichiarare di non poter ripagare neppure una tranche di 2 miliardi di dollari sui 19 totali dovuti nel 2022.
Se la situazione di bilancio argentina risulta oggettivamente difficile, molti puntano il dito anche contro la mancanza di progetti credibili da parte del governo per ridurre il deficit e contenere le pressioni inflazionistiche, oltre alla mancanza di riforme strutturali per superare un modello economico ancora troppo dipendente dall’export di materie prime. La richiesta argentina di ridurre gli interessi richiesti dal FMI nel caso di prestiti particolarmente onerosi rispetto alle quote possedute e superiori a una durata di tre anni, mostra chiaramente le difficoltà delle economie emergenti nel superare la crisi pandemica senza venir meno ai propri impegni finanziari. Tuttavia, se in linea di principio questa proposta sembra ragionevole, la rigidità mostrata dal governo peronista nelle discussioni con il Fondo, unita alle difficoltà di onorare i pagamenti, getta un’ombra sul futuro del Paese. Anche a causa di questa diatriba non vi sono statistiche aggiornate sulla posizione debitoria di Buenos Aires: tuttavia il debito pubblico nel 2019 si attestava al 90% del Pil e, complice la crisi pandemica, avrebbe raggiunto nel 2020 il 100%. Un simile livello di debito, unito alla reticenza argentina a pagare le tranches dovute nel 2022, contribuiscono a indebolire la già limitata credibilità di Buenos Aires presso gli investitori internazionali.
In maniera quasi paradossale, l’esito elettorale di poche settimane fa potrebbe venire in aiuto al Presidente Fernández per trovare una via d’uscita ad una situazione sempre più pericolosa. L’attuale inquilino della Casa Rosada è infatti esponente dell’ala più moderata e riformista dei peronisti, mentre quella più intransigente e populista che fa riferimento a Cristina Fernández de Kirchner (attuale Vice e Presidente in carica dal 2007 al 2015) è stata sostanzialmente messa all’angolo dopo questa tornata elettorale. Alberto Fernández potrebbe dunque sfruttare la congiuntura politica a proprio vantaggio per concludere un accordo con il FMI che goda di un consenso trasversale in Parlamento, potendo contare sul favore dell’opposizione. Non a caso, all’indomani della sconfitta il Presidente ha teso la mano verso la coalizione di centro-destra proponendo di lavorare insieme per rilanciare la crescita e trovare un accordo (possibilmente entro marzo 2022) per la rinegoziazione dei prestiti con il Fondo Monetario, che attualmente ammonta a 44 miliardi di dollari.
Prospettive poco incoraggianti
I prossimi due anni non saranno facili per l’Argentina. Le prospettive economiche sono quantomeno incerte, anche per ragioni esterne al Paese sudamericano. Innanzitutto, per quanto riguarda la crescita, le stime del FMI non sono molto ottimiste e, come detto, prevedono che il Pil non crescerà più del 2% nel medio periodo. Sulle previsioni di crescita incideranno ovviamente l’andamento del rapporto debito/Pil e il proseguimento dei negoziati con il Fondo: in questo caso, il mutamento del quadro politico interno potrebbe portare a un accordo nel 2022 che restituisca un po’ di “ossigeno” ai conti pubblici. In secondo luogo, attenzione all’andamento dell’inflazione e dei tassi di cambio: il crollo sperimentato dalla lira turca in queste settimane potrebbe fornire uno “spoiler” di quello che potrebbe succedere in Argentina l’anno prossimo se la Banca Centrale (che non è del tutto indipendente dal Governo) non dovesse riuscire a stabilizzare il cambio e se la Federal Reserve dovesse decidere per un rialzo dei tassi, innescando una fuga di capitali dai mercati emergenti che potrebbe assestare un duro colpo alla stabilità finanziaria di Buenos Aires.
Infine, occhio anche all’andamento del commercio internazionale: in questo caso, la congiuntura favorevole per le commodities sembra destinata a proseguire anche nel 2022, favorendo un Paese esportatore come l’Argentina. Ma difficilmente si apriranno nuovi sbocchi commerciali: l’accordo di libero scambio firmato dal Mercosur con l’UE è a un binario morto per ragioni sia economiche (gli Stati membri UE temono che le esportazioni di prodotti primari dal Sudamerica penalizzino i propri agricoltori) che politiche, mentre il Cile (che rappresenta in parte un diretto rivale dell’Argentina) potrebbe imboccare la corsia di sorpasso e concludere un Free Trade Agreement con Bruxelles già nel 2022 che avrebbe sicuramente aspetti meno controversi.
Sembra dunque difficile che l’Argentina riesca ad abbandonare nel medio termine il proprio modello “stop/go”, dato che i problemi strutturali potranno essere sconfitti solo attraverso profonde azioni di riforma. È tuttavia probabile stimare che il Governo di Fernández riesca nell’intento – ormai abituale – di “calciare la lattina” un po’ più in là, aumentando però il divario rispetto ad altri Paesi nella regione (come Cile e Colombia) che da tempo sono ben più dinamici e in grado di attirare capitali e investimenti stranieri.