Il 20 marzo, un ordine esecutivo (Executive Order) del presidente Obama ha esteso la lista dei funzionari russi o filo-russi colpiti dalle targeted sanctions statunitensi dopo la proclamazione della secessione della Crimea da Kiev e il suo ‘ricongiungimento’ a Mosca.
La decisione della Casa Bianca (peraltro largamente anticipata) ha fatto compiere alla crisi ucraina un nuovo passo avanti sulla via della radicalizzazione. Da una parte, la risposta del Cremlino non si è fatta attendere, traducendosi nel bando all’ingresso sul territorio della Federazione Russa di una serie di politici e funzionari statunitensi, fra cui il leader della maggioranza al Senato (il democratico Harry Reid), lo speaker della Camera dei Rappresentanti (il repubblicano John Boehner), e il Deputy National Security Advisor, Ben Rhodes. Dall’altra, come lo stesso Obama ha annunciato, le misure del 20 marzo rappresentano solo la prima parte di un più ampio pacchetto, volto a colpire ‘settori-chiave dell’economia russa’ (incluso quello energetico) in caso di un aumento della presenza militare di Mosca in Ucraina o di un’escalation della crisi in Crimea.
Indipendentemente dal carattere improprio di taluni paragoni storici (come il richiamo alla Guerra Fredda, che negli ultimi giorni è tornato in modo insistente sulla stampa nazionale ed estera), quella attualmente attraversata è forse la crisi più grave che l’amministrazione Obama ha dovuto affrontare nei suoi rapporti con Mosca. Avviati all’insegna del ‘reset’ dopo la crisi georgiana dell’estate 2008 e le frizioni degli anni della presidenza Bush, questi rapporti si sono gradualmente raffreddati, mano a mano che la posizione di Mosca si è fatta più assertiva su una serie di issues legate alla sua visione della sicurezza e degli equilibri internazionali. Parallelamente, l’amministrazione Usa è parsa avere preso l’iniziativa. La volontà di ‘reset’ – pur ripetutamente affermata – ha faticato a tradursi in iniziative concrete (con la parziale eccezione dalla stipula, nell’aprile 2010, del nuovo trattato START), mentre su una serie di ‘punti qualificanti’ (primo fra tutti la cooperazione NATO-Russia i materia di difesa missilistica) non solo le posizioni delle parti sono rimaste lontane, ma si è anche assistito a un loro chiaro irrigidimento.
Le ragioni che spiegano questa evoluzione sono diverse. Dal lato russo, la rinnovata assertività del Cremlino in politica estera si spiega in parte con quelle che sono state talora etichettate come le ‘ambizioni neo-imperiali’ del presidente Putin. D’altro canto, essa è anche espressione dell’intrinseca debolezza del paese e del suo soffrire di una ‘sindrome d’accerchiamento’ mai davvero superata. Nel caso della Crimea, questa due dimensioni trovano il loro punto di contatto nella centralità strategica di Sebastopoli e del controllo esercitato sulla Flotta del Mar Nero, baluardo di un bacino che Mosca ha sempre considerato il proprio ‘cortile di casa’ e, allo stesso tempo, strumento di proiezione di potenza nel Mediterraneo, come emerso, ad esempio, nelle fasi più acute della crisi siriana. I timori per un allargamento – formale o sostanziale – dei confini dell’Alleanza Atlantica sono un altro elemento che rientra in questo quadro, e che, agli occhi di Mosca, trova conferma in quelli che sono percepiti come il permanere di un forte orientamento anti-russo nella postura NATO e la scarsa sensibilità verso le sue esigenze di sicurezza.
Dal lato statunitense operano fattori non molto dissimili. A questi occorre tuttavia aggiungere un elevato grado di complessità (talora di contraddittorietà) del dispositivo decisionale. Sin dall’inizio, l’amministrazione Obama è apparsa in difficoltà nel riconciliare le necessità del pragmatismo incarnate nella persona del presidente con le istanze interventiste sostenute da numerosi, importanti esponenti del Partito Democratico e in qualche misura accreditate dall’‘immagine pubblica’ costruita intorno alla figura di Barack Obama. L’arrivo al Dipartimento di Stato di John Kerry – che negli anni dell’amministrazione Clinton era stato uno dei campioni del c.d. ‘interventismo democratico’ – ha accentuato queste difficoltà. L’attivismo che il Congresso ha dimostrato intorno alla vicenda ucraina ha contribuito ad aggiungere un ulteriore elemento di complessità. Sulla politica delle sanzioni, per esempio, Capitol Hill è sempre apparsa un passo avanti rispetto all’amministrazione, che, per contro, si è vista ripetutamente imporre una linea di condotta non sempre coerente rispetto ai suoi interessi e agli obiettivi perseguiti.
La radicalizzazione (reale o percepita) del confronto con Mosca e la sua crescente ideologizzazione sono destinati, con ogni probabilità, a rafforzare queste dinamiche. Al di là delle sue valenze ‘geopolitiche’, la questione ucraina sta assumendo sempre più i contorni di una contrapposizione ‘a tutto campo’ con una Russia vista – a Washington come in molte capitali europee – come un soggetto di nuovo minaccioso. In questa prospettiva, e di fronte al già alto grado di mediatizzazione del confronto, il ruolo degli organi rappresentativi finisce con l’acquisire un peso crescente. L’accelerazione impressa dall’amministrazione statunitense alla dinamica sanzionatoria sembra attestare la sua volontà di inserirsi più chiaramente nel solco tracciato dal Congresso. Resta in sospeso la questione della sostenibilità sul lungo periodo di una simile politica che, se da una parte aggrega intorno alla Casa Bianca un facile consenso, dall’altra conferma l’immagine di un’amministrazione debole e rischia di rendere Obama ostaggio dei turbolenti meccanismi di un legislativo che non è mai apparso in grado di controllare effettivamente.
*Gianluca Pastori è Professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.