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Commentary

Barcellona e Madrid: l’eterna disputa sull'indipendenza

Gilberto Bonalumi
29 settembre 2017

Sbagliano entrambi, sia Madrid sia Barcellona. Non a pari responsabilità, ma con motivazioni diverse che sarà importante analizzare per comprendere meglio l’impasse in cui oggi si trova la Spagna intorno alla questione dell’indipendenza catalana.

I costituzionalisti chiedono una correzione di linea agli organizzatori del referendum del 1° ottobre e contemporaneamente offrono una compensazione generosa a chi non voterà per l’indipendenza. Saggezza politica vuole infatti che, per disinnescare questa dinamica perversa, agli eventuali “castighi istituzionali” corrispondano “future concessioni”.

Il Presidente del governo, Mariano Rajoy, ha messo in campo delle rigidità costituzionalmente corrette, ma concentrate in un lasso temporale troppo breve e ormai non più gestibile; se le avesse “diluite” nei cinque anni precedenti che il governo aveva a disposizione, il risultato ottenuto sarebbe forse stato meno conflittuale. Tuttavia, immaginare che il giorno successivo al fatidico 1° ottobre possa nascere non una regione più autonoma, bensì una nuova repubblica che negozi direttamente la propria entrata nell'Ue (confidando per di più che le stesse Nazioni Unite diano il consenso a una presenza di osservatori elettorali che legittimerebbe il progetto sovranista a livello internazionale), pare francamente troppo.

I referendum a cui abbiamo assistito in questi anni appaiono sempre più strani e dissonanti: da un lato, con Brexit, i britannici scelgono di uscire dall'Ue ricostituendo un confine tra Gibilterra e la Spagna; dall’altro, la Catalogna con il referendum vuole lasciare Madrid, ma avere un posto a Bruxelles.

A pochi giorni dal voto non è ancora certo se il referendum si farà o meno, né quale sarà la sua sorte. Tutto è ancora incerto e avvolto nel mistero, soprattutto dopo il blitz della Guardia Civil del 20 settembre che, su mandato del titolare della procura di Barcellona, ha bloccato la maggior parte della logistica per il referendum, arrestando sedici alti funzionari del governo catalano preposti all’organizzazione (poi rilasciati con pesanti imputazioni), sequestrando 9 milioni di schede e mettendo i sigilli a 41 uffici.

L’intervento della magistratura, che eseguiva la sentenza del Tribunale costituzionale che aveva dichiarato “illegale” il referendum e ne aveva ordinato la “sospensione”, è apparso a tutti gli osservatori come un espediente per mascherare una decisione politica del governo di Madrid volta a disinnescare la bomba indipendentista. E come tale è stata letta a Barcellona, dove non solo il fronte a favore dell’indipendenza, "Junts pel Si" ("Uniti per il Sì") che ha la maggioranza nel Parlamento regionale, ma anche quei settori della società civile che si erano mostrati tiepidi e titubanti, hanno interpretato il blitz come un atto di sopraffazione e autoritarismo da parte del governo di Madrid. Non è un caso dunque che molti cittadini siano scesi in strada per protestare e gridare la propria indignazione.

Gli studenti hanno occupato la sede centrale dell’Università di Barcellona, mentre altri si sono accampati nelle piazze della città vecchia; il club e i giocatori del Barça si sono schierati senza indugi a favore del referendum; la sindaca di Barcellona Ada Colau e i movimenti civici che l’appoggiano, critici del modo unilaterale in cui il referendum era stato indetto, hanno presto messo da parte le obiezioni e rivendicato il “diritto a decidere” dei catalani. Insomma, se prima del 20 settembre i sondaggi attribuivano all’opzione del Sì a favore dell’indipendenza meno del 50% dei consensi, dopo tale data questa soglia è stata abbondantemente superata.

Gli indipendentisti, a cominciare dal presidente della Generalitat (il Governo della Catalogna), Carles Puigdemont, e il suo vice, Oriol Junquera, leader di Esquerra Republicana, continuano a incitare i catalani a resistere e andare a votare il 1° ottobre come previsto. Puigdemont ha twittato che il “referendum si farà”, sostenendo che c’è un piano di emergenza per celebrarlo e rimandando a un sito (con base fuori dalla Spagna) dove si può consultare l’elenco dei seggi elettorali clandestini e la reperibilità delle “paperetes” (così si chiamano le schede in catalano).

Per Mariano Rajoy, invece, il “referendum non si farà”. “Lo Stato di diritto” – ha detto – “ha già impedito che si celebrasse un referendum illegale” e ha aggiunto: “la cosa più sensata e ragionevole è fermarsi. Le autorità catalane dicono che non ci sarà nessun referendum. Mantenere questa illusione provoca una tensione inutile nella società”. Per rafforzare ancora di più la sua tesi il Ministero dell’Interno di Madrid ha messo sotto il proprio controllo la polizia autonoma catalana (i 17 mila uomini dei Mossos d’Esquadra), nominando un colonello della Guardia Civil come responsabile della sicurezza incaricato di coordinare i diversi corpi di polizia nei dispositivi per impedire il referendum. La Generalitat ha protestato ritenendolo “un fatto inaccettabile”, mentre il comandante dei Mossos in un comunicato ha fatto sapere che “non condivide la decisione, ma la accetterà per disciplina”.

Questo lo stato dei fatti che rimanda a un copione già visto nel 2014, quando l’allora presidente della Generalitat Artur Mas, dopo aver convocato un referendum per chiedere ai catalani se erano favorevoli all’indipendenza, fu costretto a fare marcia indietro e a derubricalo a semplice “consultazione partecipativa” non vincolante. Questa si tenne nel novembre 2014 e vi parteciparono 2,3 milioni di cittadini (una minoranza rispetto ai 6,5 milioni di aventi diritto): i Sì arrivarono all’80%.

Nei fatti non c’è stata alcuna volontà di dialogo né da parte del governo regionale catalano, né di quello centrale di Madrid, fermi sulle rispettive posizioni e condannati a una sorta di coazione a ripetere gli stessi errori. Quando il governo della Generalitat rivendica il diritto a separarsi in nome della democrazia e Madrid lo nega sulla base della medesima invocazione, le emozioni finiscono con il prevalere: e lo fanno colpendo tanto la struttura politica dello stato quanto i diritti e le libertà dei cittadini, senza alcuna distinzione.

Rajoy si fa forte dello spirito e della lettera della Costituzione che nell’art. 2 sancisce “l’integrità territoriale della Spagna” e proclama che la “sovranità nazionale risiede nel popolo spagnolo da cui emanano i poteri dello stato”: non quindi in una sua parte o “nazionalità”, anche se “storica” e riconosciuta. Il capo del governo si vanta di non aver applicato l’art. 155 della Costituzione che dà al governo in caso di minaccia all’unità nazionale il potere di “sospendere” i poteri delle autorità locali e sostituirsi a esse per il tempo necessario. Ma Rajoy dovrebbe sapere che non tutto quello che è legalmente possibile è politicamente saggio. E per risolvere la questione, invece di privilegiare la sola via “legalitaria” avrebbe dovuto esplorare altre vie, come quella suggerita dal leader socialista Pedro Sanchez che punta a una riforma della Costituzione che conduca a una evoluzione dallo stato delle autonomie a uno stato federale.

I nazionalisti catalani – oltre ad appellarsi a una presunta “età dell’oro” che risale al medioevo e alle ferite inferte dal regime franchista alla cultura e alla dignità dei catalani – rivendicano la propria “diversità” dagli altri “popoli” della Spagna: soprattutto la Castiglia di cui si sentono una “colonia”, non nascondendo la propria insofferenza verso il formalismo e la lentezza della burocrazia dello stato centrale. Non si accontentano dell’amplissima autonomia che hanno ottenuto in questi quarant’anni di democrazia. Questa, per esempio, ha fatto sì che oggi abbiano un governo, un parlamento e una polizia proprie con poteri vasti anche in materia fiscale, e che il catalano sia la lingua ufficiale nelle scuole, mentre il castigliano è lingua straniera. Eppure, vogliono il diritto all’autodeterminazione, che però non è scritto né nella Costituzione né nelle leggi. Sarebbe necessario modificare la Costituzione, strada che tuttavia è troppo lunga e complicata. Allora si arrogano il “diritto a decidere” che spetta ai popoli oppressi e colonizzati, scegliendo la “rottura totale” con il resto del paese e indicendo un referendum unilaterale, senza garanzie e senza quorum. Inoltre, la domanda posta ai catalani – “Volete voi che la Catalogna sia uno stato indipendente sotto forma di Repubblica?” – appare come un tentativo facile e piuttosto sbrigativo per prendere due piccioni con una fava: ottenere il divorzio dalla Spagna e allo stesso tempo diventare una repubblica. Troppo bello per essere vero.

Il bravo editorialista spagnolo Juan Luis Cebrián ha tentato di cogliere ciò che bolle nel profondo di questa situazione drammatica. E annota che l’effervescenza catalana, proprio come la nascita del movimento degli indignados e di tanti altri movimenti popolari e populisti dentro e fuori la Spagna, non può prescindere dalla comprensione del “disordine mondiale” che oggi ci circonda: un disordine dentro il quale la democrazia rappresentativa continua a perdere prestigio.

 

Gilberto Bonalumi, ISPI Senior Advisor

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