Scontri e arresti a Beirut, dove monta la rabbia e domani è prevista una grande manifestazione contro il governo. Il presidente francese Macron nella capitale in ginocchio: non siete soli.
Monta la rabbia a Beirut e in tutto il Libano dopo la devastante esplosione nel porto della capitale che due giorni fa ha provocato 157 morti e oltre 5000 feriti, e lasciato senza casa circa 300.000 persone. Nella serata di giovedì, le forze dell’ordine hanno disperso con i lacrimogeni decine di manifestanti che lanciavano pietre contro le vetrine e il parlamento. Il bilancio è di una ventina di feriti. Segni tangibili di un malcontento crescente nella società libanese, che dopo mesi di manifestazioni di piazza ha visto nell’esplosione il compimento simbolico dell’incompetenza e della corruzione dell’intera classe politica. Gli incidenti, cui sono seguite decine di arresti, avvengono alla vigilia di una grande manifestazione antigovernativa convocata per sabato. A placare le tensioni non sono servite neanche le notizie sul fermo di decine di dirigenti, tra cui il direttore del porto, e delle dogane nell’ambito dell’inchiesta sulle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate dal 2013 senza misure di sicurezza e il cui smaltimento era stato più volte rimandato. È così in una città sconvolta e arrabbiata, dove ancora si continua a scavare sotto le macerie in cerca di superstiti, che è arrivato ieri il presidente francese Emmanuel Macron, primo capo di stato straniero a recarsi nel paese dopo l’incidente. “Adesso la priorità è aiutare” ha detto mentre camminava per le vie del centro, fermandosi a parlare con i cittadini libanesi: “ma c'è una crisi politica, morale, economica e finanziaria che dura da mesi, da anni e che necessita di iniziative politiche forti”. Per questo, “ci sarà un prima e un dopo il 4 agosto” ha assicurato, “è arrivato il momento della responsabilità per il Libano e i suoi dirigenti. Dobbiamo ricostruire la fiducia, ma questa presuppone la rifondazione di un nuovo ordine politico e profondi cambiamenti”.
Sete di giustizia?
Per la prima volta dall’esplosione che ha devastato la capitale libanese, il presidente Michel Aoun ha parlato di cause non ancora determinate e della “possibilità” di una interferenza esterna con razzi, bombe o altre azioni. Intanto, per cercare di placare le tensioni, le autorità libanesi hanno annunciato arresti a tappeto tra i dirigenti del porto e delle dogane nell’ambito dell’inchiesta sulle quasi 3.000 tonnellate di nitrato di ammonio, stoccate per sei anni senza misure di sicurezza nel magazzino esploso. Ma proprio il direttore generale del porto e il capo delle dogane, anch’essi agli arresti, poche ore dopo l’esplosione avevano alle emittenti libanesi di aver inviato diverse lettere nel corso degli anni alla magistratura per chiedere la rimozione di materiale altamente esplosivo immagazzinato nel porto. Lettere rimaste senza risposta. Anche per questo sono sempre più numerosi gli appelli per la creazione di una commissione d’inchiesta internazionale che faccia luce sull’accaduto.
Aiuti: corsa contro il tempo?
Funziona intanto a pieno ritmo la macchina dei soccorsi. In città sono già operativi ospedali da campo forniti da Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Iran, mentre all’aeroporto continuano ad atterrare aiuti umanitari da ogni parte del mondo. L’Arabia Saudita ha istituito un ponte aereo per quattro giorni, mentre da Bruxelles la Commissione Ue ha mobilitato 33 milioni di euro per coprire le spese emergenziali, le attrezzature e la protezione delle infrastrutture critiche. Le Nazioni Unite stanzieranno almeno 9 miliardi di dollari per aiutare gli ospedali di Beirut nelle operazioni di primo soccorso e per migliorare la capacità di accoglienza, mentre la Conferenza episcopale italiana ha deciso lo stanziamento di 1 milione di euro.
Infine dall’Italia, presente in Libano con 1100 militari della missione di contrapposizione Unifil, a guida italiana, e secondo partner commerciale del Libano dopo la Cina, primo in ambito europeo, sono giunti i due velivoli con otto tonnellate di materiale sanitario e squadre dei vigili del fuoco. “L’Italia è al fianco del popolo libanese – ha scritto il ministro degli Esteri Luigi di Maio su Facebook – e lavoreremo nei prossimi giorni per offrire loro il massimo sostegno possibile”.
Macron, un nuovo patto per il Libano?
Non si affida a Facebook invece, e nemmeno a Twitter il presidente francese Emmanuel Macron, per manifestare la vicinanza della Francia al popolo libanese. Atterrato ieri a Beirut, a 48 ore dal disastro, il leader francese ha incontrato i presidenti della Repubblica, del Consiglio e del Parlamento libanesi: il cattolico Michel Aoun, il sunnita Hassan Diab e lo sciita Nabih Berri. Gli uomini politici più importanti del paese e, in questo momento, tra i più odiati. Al punto da non azzardarsi a fare quello che ha fatto il presidente francese appena arrivato: visitare a piedi i luoghi della devastazione, mentre la gente intorno gridava ‘Rivoluzione’ e ‘Il popolo vuole la caduta del sistema’, tra gli slogan più intonati nelle piazze della Primavera araba. Il presidente francese ha ribadito che “oggi la priorità è l’aiuto, il sostegno alla popolazione senza condizioni”, ma che per evitare che il paese “continui ad affondare” e possa tornare a crescere, “saranno necessarie riforme”. Tornerò il primo settembre, “e se loro non potranno farlo, mi assumerò io la responsabilità politica”, ha promesso. L'esasperazione di Parigi nei confronti della classe politica libanese è ai massimi storici. Il ministro degli Esteri dell’Eliseo Jean-Yves Le Drian, in visita a Beirut due settimane fa, lo aveva detto chiaro e tondo: senza riforme la Francia non fornirà aiuti finanziari al Libano, in preda alla più grave crisi economica dai tempi della guerra civile. Ieri Macron ha ribadito il punto, chiarendo che il patto sociale su cui il Libano si è retto negli ultimi decenni si è infranto ormai molto tempo fa, schiacciato dagli scandali per corruzione, dalla crisi finanziaria, dai continui blackout di una società elettrica che ha i costi di produzione più alti del mondo, dal nepotismo e clientelismo e da una gestione disastrosa del ciclo dei rifiuti. Un peso sotto il quale il paese sta implodendo e per cui quella del porto di Beirut rischia di diventare, la catastrofe di troppo.
Il commento
Di Annalisa Perteghella, Research Fellow area Mena ISPI
Beirut, e il Libano tutto, sono da ricostruire. Non solo nelle infrastrutture e nelle abitazioni andate distrutte, ma nella struttura profonda dello Stato. La comunità internazionale deve intervenire in questa fase per accompagnare la ricostruzione, assicurando che i fondi e gli aiuti vengano utilizzati con la massima efficacia e non diventino oggetto di spartizione, ma deve soprattutto accompagnare un processo politico di riforma profonda del sistema. Non può essere la Francia da sola a farlo, però, considerato il pesante passato coloniale. C'è ampio spazio per l'Unione Europea affinché si faccia portatrice di questo sforzo di mediazione. è fondamentale che l'assistenza venga accompagnata da forti richieste di riforma, e che non vada invece a gettare un'ancora di salvataggio alla attuale classe politica libanese.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)