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Oggi il summit NATO

Biden in Europa: stress test per le relazioni transatlantiche

Stefano Stefanini
14 giugno 2021

Stati Uniti e Europa emergono da un’acuta crisi di fiducia reciproca. “America first” vedeva negli europei dei rivali, specie se uniti nell’Ue. Sentendosi abbandonati, scossi dalla perdita del sostanzioso pezzo britannico, gli europei continentali cominciavano a pensare di dover far da soli. Producendo peraltro più parole che fatti. Intanto il resto del mondo, Cina in testa, non stava fermo; la Russia di Vladimir Putin stringeva la morsa all’interno e non mollava alcun osso – ucraino, siriano, libico – all’esterno. Risultato: divaricazione transatlantica e ordine sparso sulla scena internazionale. Arriva Joe Biden, si rovescia l’approccio americano, cambiamo le dinamiche. Come e quanto? I vertici in corso – G7, Nato, Ue-Usa, Usa-Russia – ce ne daranno una prima misura.

La crisi era stata brusca, inattesa – nel 2016 qui ci si domandava quale sarebbe stato il rapporto di Hillary Clinton con l’Europa – e relativamente breve. Quattro anni di presidenza Trump sono passati abbastanza in fretta da non fare danni permanenti. La Nato è sopravvissuta alle sue bordate. Si è però scavato un fossato psicologico. Che è quello che il nuovo presidente americano cerca di colmare. Lo fa con lo sguardo rivolto al presente e al futuro più che al passato. La geopolitica è dominata dagli oceani. L’Atlantico non è il solo né il più importante. Quello che però è fondamentale è che rimanga unito.

Dopo cinque mesi di presidenza dedicati all’America, Biden ha scelto l’Europa per cominciare a far politica estera. Ovviamente la sua amministrazione ne ha già fatta tanta con decisioni importanti come il ritiro dall’Afghanistan e la radicale inversione di marcia, rispetto al predecessore, sui cambiamenti climatici. Ma il presidente era rimasto nel retroscena. Adesso si espone direttamente con i quattro vertici, tutti su suolo europeo (la geografia fisica è impermeabile a Brexit). Ed è, quella di Joe Biden, una scelta politica precisa che rimette l’Europa e i rapporti transatlantici al centro della politica estera americana. A una condizione: ottica globale, non eurocentrica.

In almeno tre dei quattro vertici si parla molto di Cina. Fa eccezione l’incontro di Ginevra con Putin. Possiamo comunque essere sicuri che Pechino lo seguirà con attenzione, se non con nervosismo. Più distanti fra loro rimangono russi e americani, tanto meglio per la Cina. È, alla rovescia, il gioco delle tre carte di Henry Kissinger di mezzo secolo fa. Se la sfida globale fra superpotenze è fra Pechino e Washington, la Cina ha interesse a tenersi stretta la Russia. Xi Jinping e Vladimir Putin hanno allacciato un’alleanza che fa comodo ad entrambi e che pertanto può durare. Il confronto sul Pacifico è più pressante di quello, eventuale, sulla Siberia o per l’influenza in Asia centrale. Il collante è anti-americano. Se fra Mosca e Washington si diluisce, si annacqua anche l’alleanza sino-russa.

Per il momento Xi può dormire sonni tranquilli. I rapporti russo-americani sono al nadir dai tempi della guerra fredda. Si può anche immaginare che proprio per quel motivo, una volta messe le carte in tavole, non possano che risalire. Fu così anche con Reagan. Intanto l’obiettivo del vertice di Ginevra è minimale: non mettersi d’accordo, ma gestire il disaccordo. L’oggetto principale è la “stabilità strategica” dell’area euro-atlantica, adesso allargata anche al disgelantesi Artico, assicurando una base di trasparenza e comunicazioni essenziali fra comandi militari russo e Nato. Qualche orizzonte di collaborazione su pandemia e cambiamenti climatici. Molti altri irritanti: crisi varie dall’Ucraina alla Siria, interferenze elettorali, hackeraggio.

Sperabilmente, Biden e Putin potrebbero anche far ripartire i negoziati sul controllo armamenti; dopo aver esteso New START, che comunque andrà rinegoziato, ci sono i buchi lasciati da tutti gli altri trattati venuti meno negli ultimi anni (Inf, Open Skies, per non parlare del Cfe sugli armamenti convenzionali, irrecuperabile almeno per ora). La Cina finora si è sottratta a qualsiasi negoziato nucleare. Quanto può continuare a farlo? Ha molte meno testate degli altri due. Ma il rapporto di forze non dipende solo dal numero, ma anche dalla modernizzazione degli arsenali.

Il confronto con Putin è il rovescio della medaglia degli altri tre. Non è un caso che Biden vi arrivi per ultimo. Il primo passo era di recuperare l’unità d’intenti con gli alleati e restituire l’immagine di coesione atlantica e occidentale di fronte alle vecchie (Russia), nuove (Cina) e diverse (cambiamenti climatici, Covid) sfide. A questo fine la strategia del viaggio di Biden si è articolata su tre assi: “sprovincializzare” gli alleati europei allargandone l’orizzonte della sfida all’Indo-Pacifico (G7 con partecipazione di Sudafrica, India, Australia, Corea del Sud); confermare loro, senza se e senza ma, l’impegno americano per la difesa dell’Europa (vertice Nato); ampliare i terreni di stretta collaborazione con l’Europa dalla sicurezza militare a tecnologia, innovazione, difesa della democrazia, “resilienza” delle società occidentali (vertice con l’Ue). Pur con qualche importante sovrapposizione e filoni comuni – i cambiamenti climatici sono in tutte le agende – le tre operazioni corrispondono grosso modo ai tre vertici.

L’articolazione riflette la logica interna dei tre fori. Il G7 nasce globale. L’Alleanza Atlantica è, da sempre, il cuore del rapporto transatlantico, l’errore di molti osservatori europei è spesso di vederne soltanto la dimensione militare e non quella politica che invece questo vertice rilancia e sottolinea in vista del nuovo concetto strategico che sarà approvato l’anno prossimo. Ma per una collaborazione a tutto campo con l’Europa gli Stati Uniti hanno bisogno di costruirla, innovando, con l’Unione Europea.

Quest’ultimo è sicuramente il passaggio più difficile perché gli americani hanno sempre teso a considerare l’Ue come un blocco economico-commerciale, non come un interlocutore geopolitico. Dal canto suo, Bruxelles tende ad arroccarsi sulle proprie prerogative di sovranità condivisa e sul forte potere di dettare regole anziché scendere nell’arena della politica e delle crisi internazionali. Non aiuta il fatto che il gigante economico europeo sia tuttora, malgrado qualche timido progresso, un nano quanto a capacità militari che fanno della conclamata “autonomia strategica” una pericolosa illusione. Il complesso di inferiorità nelle seconde si traduce in uno di superiorità nel resto.

Gli europei stanno accogliendo Joe Biden a braccia aperte. G7 ieri, Nato oggi, Ue domani confermeranno che anche questa sponda dell’Atlantico riconosce la sfida cinese e vuole affrontarla insieme agli americani. Giustamente, gli europei mantengono però la necessità di tenere la porta aperta alla cooperazione con Pechino: su questo punto il presidente del consiglio è stato chiarissimo. Coordinamento non significa appiattimento.

Queste e altre dissonanze non impediscono a Joe Biden di rientrare a Washington con un “mission accomplished” in bilancio: un G7 rivitalizzato e più globale; una Nato che guarda al futuro del 2030, non solo alle vecchie glorie del secolo scorso; una Ue con cui lavorare; carte in tavola con la Russia. La parte più difficile, come sempre, sarà quella di dare un seguito concreto ai comunicati e impegni politici. Vedremo. Ma intanto l’agenda transatlantica è tracciata. Non male per la prima uscita del nuovo presidente.

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AUTORI

Stefano Stefanini
ISPI Senior Advisor

Image credits (CC BY-NC-ND 2.0): European Parliament

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