Che le elezioni presidenziali in Bielorussia non sarebbero state come le altre lo si era capito ben prima del 9 agosto. Che ai brogli (largamente attesi) sarebbero seguite manifestazioni di piazza, anche. D’altronde, la società civile bielorussa non è cosi passiva come molti forse si aspetterebbero da un paese guidato da 26 anni dallo stesso presidente. Già nel 2006 e nel 2010 i bielorussi erano scesi in piazza per contestare il risultato elettorale in quegli anni: secondo i risultati ufficiali, Alexander Lukashenko non ha mai vinto con meno dell’80% dei voti. Nel 2011 l'Unione europea aveva anche imposto sanzioni contro la Bielorussia in risposta all'incarcerazione di politici dell'opposizione e dei loro familiari, come nel caso Andrei Sannikov. In maniera simile alle sanzioni attualmente in vigore dall’UE, quelle del 2011 (rimosse poi nel 2016) imponevano il divieto di viaggio nell'Unione per 158 alti funzionari bielorussi, tra cui lo stesso Lukashenko e i suoi due figli maggiori; nonché il congelamento dei conti bancari europei dei sanzionati. Diversi, dunque, gli elementi di continuità con il passato e molti, anche, i segnali di una certa resilienza del regime. Ma è possibile ipotizzare un ritorno ad una situazione come quella che ha preceduto le elezioni? Tale ipotesi appare oggi fortemente improbabile: se anche Lukashenko dovesse riuscire a mantenere il potere, le condizioni interne e internazionali gli renderebbero l’esercizio dello stesso molto più difficile. Essenzialmente per tre motivi.
La società bielorussa, oggi, è diversa. Il paese ha infatti subito tre “traumi”: quello della crisi economica in corso, come riflesso di quella di Mosca, da cui l’economia di Minsk largamente dipende, e che aveva già generato proteste; quello dovuto all’epidemia di COVID-19, in cui la società si è ritrovata a rimboccarsi le maniche per sopperire alle mancanze del governo, che ha invece adottato un atteggiamento irresponsabile e ha sottovalutato il virus (famosi i commenti di Lukashenko in cui hockey, vodka e sauna erano indicati come mezzi per combattere il Coronavirus); infine, quello di una repressione più violenta rispetto al passato, che in queste proteste avrebbe causato già cinque vittime, oltre a vari desaparecidos (e senza dimenticare che in Bielorussia vige ancora la pena capitale applicabile anche in caso di crimini contro lo stato). Grazie anche (o a causa) di queste esperienze traumatizzanti, la società civile bielorussa ha raggiunto dei livelli di coesione e organizzazione molto più alti rispetto al passato. Questo risulta evidente dalla regolare frequenza delle proteste e dai numeri di alcune di esse: il 16 agosto si stima che circa 200.000 manifestanti si siano riversati nel centro di Minsk in quella che è stata la più grande protesta nella storia della Bielorussia. Difficile, dunque, dimenticare queste esperienze e le loro preziose lezioni in futuro, anche se Lukashenko continuasse a essere presidente.
Il secondo motivo è che anche la regione, oggi, è diversa. Questo non riguarda solo paesi vicini come l’Ucraina e l’Armenia, investite da due “rivoluzioni colorate” che al netto della loro diversità – dal carattere più geopolitico la prima, una trasformazione quasi esclusivamente interna la seconda – possono offrire degli esempi ai cittadini bielorussi. È essenzialmente il mutato ruolo della Russia che ha delle implicazioni fondamentali sul futuro politico di Lukashenko. Se l’alleanza tra i due paesi e i loro leader sembra ancora solida dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni (soprattutto dopo che Vladimir Putin ha annunciato di aver costituito, su richiesta del presidente bielorusso, “unità di riserva delle forze di sicurezza” pronte a intervenire in caso di necessità), diverse, profonde e di lunga data sono le crepe nella relazione. Innanzitutto, un’antipatia personale aggravata dai molti “tradimenti” di Lukashenko. I due, di fatto, non si sopportano: il presidente russo ha apostrofato la sua controparte bielorussa (direttore di un allevamento statale di maiali durante l'era sovietica) come un “buffone traditore”; e, quasi a voler cementare la sua reputazione, nel 2018 Lukashenko ha lasciato tre grandi sacchi di patate bielorusse nelle eleganti sale del Cremlino come regalo di Natale per Putin. Il presidente russo, poi, non ha perdonato Lukashenko per il suo rifiuto di riconoscere l'annessione russa della Crimea nel 2014; per la sua resistenza ai progetti di integrazione profonda attraverso la creazione di una confederazione tra i due stati; per capeggiare la lotte intestine all’Unione economica euroasiatica e, da ultimo, per aver accusato la Russia di interferenze elettorali. L’offerta di aiuto russa è dunque ambigua e densa di rischi per il dittatore bielorusso: la dipendenza da Mosca, che Lukashenko negli anni ha tentato di gestire al meglio per garantirsi ampi margini di manovra all’interno del suo paese, sarebbe ora pressoché assoluta.
Il terzo motivo è che anche l’Occidente, specialmente l’UE, adotterà un atteggiamento molto diverso nei confronti della Bielorussia e, soprattutto, di Lukashenko, qualora rimanesse al potere. Bruxelles e Washington hanno negli anni oscillato tra la condanna del regime e un tentativo di dialogo con Lukashenko, anche in vista delle loro politiche di “contenimento” della Russia. Di questo ha certamente beneficiato il regime, in quanto Lukashenko ha sfruttato abilmente, nella migliore tradizione della politica estera “multi-vettoriale” adottata da diversi paesi della regione, le paure e gli interessi sia della Russia che dell’Occidente. Da un lato, Lukashenko si è sempre presentato agli occhi di Mosca come un politico filorusso chiave per il Cremlino e un bastione di stabilità contro le rivoluzioni nello spazio post-sovietico, viste dal governo russo come un forte rischio per la sicurezza nazionale, se non addirittura come un piano dell’Occidente che conducesse a cambi di regime. Allo stesso tempo, alcuni analisti filo-governativi stanno cercando di "vendere" Lukashenko all'Occidente come il candidato più anti-russo, sostenendo che tutte le figure dell'opposizione sono disposte ad accettare l’integrazione della Bielorussia con la Russia e continuando a insinuare che le proteste siano "una cospirazione russa contro Lukashenko". Tuttavia, se in passato l’Occidente poteva vedere Lukashenko quasi come “un male necessario”, garanzia per la sovranità bielorussa alla luce delle pressioni russe, la condanna della repressione efferata delle proteste e il coinvolgimento deciso di alcuni membri UE (soprattutto Germania, Lituania e Polonia) fanno sì che la “carta occidentale” sia decisamente meno spendibile in futuro dal dittatore bielorusso nel caso in cui rimanga al potere, riducendone ulteriormente sia l’autonomia nei confronti di Mosca e sia la legittimità agli occhi della popolazione.