Bielorussia: cresce la protesta, Lukashenko alle corde
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Dopo il voto

Bielorussia: Lukashenko alle corde

18 Agosto 2020

Le proteste e gli scioperi in Bielorussia si espandono a macchia d’olio. Putin offre appoggio militare a Lukashenko, che a sua volta propone di condividere il potere, ma solo dopo un ipotetico referendum costituzionale. Ma gli attriti tra Minsk e Mosca e l’opposizione “disorganizzata” rendono la situazione nel paese sempre più incerta.

 

A leggere i dati ufficiali, alle elezioni del 9 agosto in Bielorussia il presidente uscente Alexander Lukashenko avrebbe sbaragliato le opposizioni, raccogliendo l’80% dei consensi espressi. Ma in un paese governato dallo stesso leader dal 1994, e considerato da molti l’ultima dittatura d’Europa, il confine tra realtà e propaganda è sempre stato labile.

Quest’anno quello che per Lukashenko è il sesto mandato da presidente (la carriera politica più longeva d’Europa) è iniziato con l’intensificarsi di proteste di piazza che duravano già dallo scorso maggio, scandendo un momento di recessione economica e di profonda inquietudine sociale. Non era la prima volta, e per Babka (“paparino”, come ama farsi chiamare) già nel 2010 e nel 2015 era stato sufficiente mettere in allerta l’imponente apparato di sicurezza interno: il KGB, nome mutuato dai famosi servizi segreti dell’ex Unione sovietica.

Questa volta però qualcosa non sembra essere andato per il verso giusto. L’opposizione si è raccolta attorno a tre donne, tra le quali spicca Sviatlana Tsikhanouskaya, la moglie di un attivista arrestato lo scorso maggio. Qualche giorno fa, dal suo attuale esilio in Lituania, Tsikhanouskaya ha sostenuto che in realtà alle elezioni del 9 agosto lei avrebbe raccolto “il 60-70% dei consensi”, lanciando la volata alle proteste di piazza. Messo alle strette dal montare del dissenso, adesso Lukashenko sembra avere un numero limitato di opzioni: affidarsi di nuovo alla repressione da parte del suo apparato di sicurezza, gettarsi tra le braccia di Putin - che a sentire il presidente bielorusso avrebbe promesso sostegno politico e persino militare - o cedere alle pressioni interne. Proprio qualche ora fa il presidente bielorusso sembrava aver fatto alcune aperture verso la transizione, ma è poi nuovamente tornato sulla posizione iniziale: nessun passo indietro, al massimo dialogo con le opposizioni nel solco della Costituzione.

 

Le ragioni della protesta e l’opposizione

La Bielorussia di oggi è un paese profondamente segnato da quella che da più parti è stata definita una fallimentare gestione della pandemia di COVID-19 e da una profonda recessione economica. Sul primo versante, Lukashenko ha continuato a definire la pandemia “una psicosi” e non ha adottato alcuna misura atta a contenerne la diffusione nel paese. Le perplessità su come Minsk stesse affrontando la pandemia sono giunte persino da Mosca, che aveva annullato le celebrazioni per il 75° anniversario dalla fine Seconda guerra mondiale al contrario di quanto aveva scelto di fare il proprio vicino.

Malgrado la scelta di un approccio negazionista nei confronti della pandemia, l’economia bielorussa ha comunque risentito fortemente delle misure prese dai paesi confinanti per affrontare l’emergenza sanitaria, tanto che il paese è sprofondato in recessione. La caduta del PIL si è innestata su uno scenario di stagnazione ormai decennale: il salario medio in Bielorussia si aggira infatti oggi intorno ai 500 dollari, praticamente lo stesso valore che aveva nel 2010. Nel frattempo, l’alleato russo ha dovuto ridurre i sussidi economici verso il paese a causa prima delle crisi petrolifera scoppiata nel 2014 e che prosegue tutt’oggi e, adesso, anche dell’impatto del coronavirus sull’andamento economico interno.

Non mancano ovviamente le rimostranze maggiori, quelle per l’assenza di un vero e proprio stato di diritto e del costante spregio per i diritti civili. Sono state proprio l’assenza di democrazia e la difficoltà di gestire un’opposizione organizzata ad aver spinto Tsikhanouskaya a candidarsi, ergendosi suo malgrado a paladina dell’opposizione, per poi essere appoggiata dalla moglie di un altro candidato arrestato, Valery Tsepkalo, e dal capo della campagna elettorale di un candidato escluso dalle elezioni, Viktar Babaryka. Il risultato delle elezioni del 9 agosto, secondo le opposizioni palesemente manipolato, è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

 

Lukashenko e Putin: frenemies

Ancora oggi la Bielorussia resta un paese dipendente da Mosca. Formalmente Minsk fa parte dell’Unione Russia-Bielorussia, nata nel 1996, e dal 2015 è entrata a far parte del progetto russo di Unione economica euroasiatica. Sul piano personale, poi, ancora negli ultimi mesi il Presidente Lukashenko ha continuato a riferisi a Putin come a un “fratello maggiore”.

Ma è sul piano pratico che è ancora più evidente lo stretto rapporto tra Minsk e Mosca. Innanzitutto, la Bielorussia approfitta da tempo dei sussidi sull’acquisto di energia da Mosca: sussidi che, attraverso l’importazione di prodotti energetici grezzi e alla loro riesportazione una volta processati, permettono al paese di finanziare fino al 10% della propria spesa pubblica (il 3% del PIL). Inoltre, tra il 2000 e il 2019 Minsk ha importato da Mosca il 96% degli armamenti militari (dati SIPRI) e il 99% dei prodotti energetici (dati UNCTAD). A livello commerciale, la Bielorussia scambia con la Russia il 49% dei beni, facendo di Mosca il suo primo partner per interscambi (l’Unione europea è seconda, ma con un modesto 18%).

Negli ultimi anni, tuttavia, i rapporti tra Mosca e Minsk si sono raffreddati. Nel 2019 Putin ha proposto di unire politicamente Russia e Bielorussia, dando seguito a impegni sottoscritti nel 1999, ma Lukashenko si è nettamente opposto. Intanto prosegue un conflitto essenzialmente economico tra i due paesi, con la Russia che punta a ridurre i sussidi energetici verso Minsk (anche per necessità, visti i bassi prezzi internazionali del petrolio da metà 2014) o quantomeno a collegarli più strettamente a una partecipazione più stretta della Bielorussia all’Unione economica euroasiatica.

Più di recente le forze di sicurezza bielorusse hanno arrestato 33 persone, accusandole di far parte del Gruppo Wagner, un’organizzazione paramilitare fondata nel 2014 e sostenuta da Mosca, più volte implicata in tentativi di ingerenza all’estero, dalla Siria all’Ucraina, dalla Libia al Sudan. Da parte sua, proprio Lukashenko ha direttamente suggerito che queste 33 persone, e un altro gruppo che si sarebbe infiltrato nel paese nei giorni successivi, fossero giunte in Bielorussia con lo specifico obiettivo di destabilizzare il paese.

 

Unione europea: una presenza assente?

“I numeri [delle manifestazioni di sabato e domenica] sono una chiara indicazione che il popolo bielorusso desidera il cambiamento, e che lo vuole ora. L’Unione europea è al loro fianco”. La dichiarazione di poche ore fa di Josep Borrell, Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri, non sembra lasciare dubbi. Eppure, solo a maggio di quest’anno le relazioni tra Minsk e Bruxelles erano in netto miglioramento: le due parti avevano infatti firmato un accordo di facilitazione per l’ottenimento di visti di ingresso nell’area Schengen di libera circolazione europea. Accanto a questo, UE e Bielorussia avevano anche firmato un accordo di riammissione dei cittadini che risiedevano irregolarmente nei rispettivi territori.

La politica dell’UE nei confronti della Bielorussia sembra essere stata quella di un attendismo piuttosto assente. Dopo l’allargamento a est del 2004, che ha accolto in UE molti paesi un tempo parte del blocco sovietico e che guardano con sospetto a Mosca, Bruxelles si è fatta progressivamente più critica nei confronti della Bielorussia, ma non ha mai fatto eccessive pressioni affinché Minsk cambiasse definitivamente rotta. Al contrario, nel 2009 il paese è stato incluso nella Eastern Partnership, il programma di associazione che mira a rafforzare i legami politici, economici e culturali tra l’UE e una serie di paesi un tempo parte dell’Unione sovietica. E, se è vero che Bruxelles impose sanzioni nei confronti di Minsk nel 2011, a causa della repressione delle proteste post-elettorali nel paese, è altrettanto vero che quelle stesse sanzioni furono poi sollevate nel 2016, dopo che la Bielorussia fece timidi passi avanti per venire incontro alle richieste europee (con la liberazione di prigionieri politici e un ruolo di mediazione con Mosca nel conflitto ucraino).

Oggi, però, a seguito del weekend di proteste il linguaggio diplomatico degli ultimi anni ha lasciato spazio alla minaccia di nuove sanzioni. Venerdì il Consiglio affari esteri si è espresso in senso favorevole alle sanzioni, dando il via alla redazione di una lista di persone da colpire. Ma per il momento si tratterà appunto solo di sanzioni su singoli individui, come avvenne nel 2011. Proprio per discutere ulteriori possibili azioni europee, su specifica richiesta di Polonia e Repubblica Ceca i leader UE hanno deciso di tenere un incontro straordinario il prossimo mercoledì.

 

IL COMMENTO

di Eleonora Tafuro Ambrosetti, analista ISPI, Programma Russia, Caucaso e Asia Centrale

“È comprensibile che tutti gli occhi siano puntati su Minsk, e che subito la memoria corra alle proteste di Euromaidan in Ucraina, quelle che avrebbero portato alla “rivoluzione” del 2014 e a un conflitto armato che dura ancora oggi. Ma la Bielorussia non è l’Ucraina.

Da un lato, questa non è una protesta “geopolitica”: i bielorussi protestano più per malcontento nei confronti di Lukashenko che per ridefinire i rapporti del paese con la Russia e l’Occidente. Dall’altro, Mosca non ha un vero interesse a intervenire in maniera esplicita, perché in Bielorussia non troverebbe lo stesso sostegno che ha invece trovato in Crimea. Tuttavia, la Russia non può permettere che la Bielorussia segua il corso dell'Ucraina. Più prudente per Putin sostenere diplomaticamente Lukashenko adesso, trattare con l’opposizione e, nel frattempo, cercare di appoggiare le frange più pro-russe presenti nel paese.”

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