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Il mondo che verrà 2022

Big Tech: Nuove regole, nuovi signori?

Andrea Renda
22 Dicembre 2021

I grandi attori del mondo tech avranno sempre più potere. Il loro impatto sociale e politico sarà difficilmente controllabile.

 

Sin dagli anni Cinquanta Herbert Simon ci aveva avvertito che un'abbondanza di informazioni implica scarsa attenzione. In nessun altro luogo è tanto vero quanto nel cyberspazio, dove l'attenzione degli utenti negli ultimi trent’anni è diventata sempre più scarsa e per questo è diventata una risorsa preziosa. Di fronte a un volume di dati in costante e in rapida crescita, gli utenti hanno bisogno di intermediari che gestiscano, organizzino e classifichino gerarchicamente le informazioni, aiutandoli così a orientarsi in un mondo che diversamente sarebbe troppo complesso. Coloro che catturano l'attenzione degli utenti ottengono il potere e con il potere arriva anche la tentazione di abusarne, di acquisire ancora più attenzione, o (come si dice oggi) "user engagement", e, di conseguenza, ulteriore potere. Sin dal suo inizio, il mondo digitale ha messo in atto i meccanismi sopra descritti, creando così un’enorme distanza fra i grossi intermediari (le cosiddette FAANGs) e le aziende più piccole che producono applicazioni e servizi e che si trovano in una posizione di quasi totale dipendenza rispetto ai colossi del settore. 

Colmando un vuoto inevitabile, queste piattaforme sono passate dall'essere satelliti a diventare pianeti, poi stelle e supernove e attualmente stanno collassando in buchi neri, in grado di sfruttare le forze centripete del web per catturare e inglobare i dati e il valore generati dagli utenti e dalle imprese per trasformarli in utili. Non sorprende pertanto che i risultati economici delle FAANG abbiano seguito una traiettoria completamente diversa rispetto al resto dell'economia. Queste aziende da milioni di miliardi sono, almeno in parte, cresciute a scapito dell'economia reale: laddove queste prosperano, altre spesso falliscono. "Le aziende superstar" sono spesso state associate, nella letteratura economica, a un calo nella quantità e qualità della forza lavoro, a un’espansione del potere di mercato, a produttività stagnante e rapido aumento delle disparità. La loro crescita sembra quasi inarrestabile: nel gennaio 2020, le cinque principali aziende tech del mondo (Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon e Facebook) rappresentavano il 17,5% dell'indice S&P 500, poi con la pandemia da Covid-19, sono arrivate a quota 23%. Per avere un'idea di questa straordinaria crescita, basti menzionare che il Pil italiano è appena inferiore alla capitalizzazione di borsa della Apple. 

Tuttavia,questa situazione non si è creata da sola. Noi abbiamo permesso che accadesse. I governi, all'inizio, si sono astenuti dal regolamentare internet, asserendo che fosse una tecnologia neutrale, basata su standard aperti e non proprietari, nonché ancora in fase iniziale. Gli interventi normativi dal 1990, in particolare negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, miravano a proteggere gli intermediari dalla responsabilità. Tuttavia, in assenza di normative pubbliche, il cyberspazio è rapidamente passato dall'essere un territorio di innovazione senza necessità di autorizzazioni a uno spazio in cui le interazioni sociali e le attività economiche sono per lo più regolamentate da protocolli e algoritmi sviluppati dai giganti del tech. Già nel 2011 Tim Büthe and Walter Mattli avevano incluso questi giganti fra i "nuovi signori globali", facendo in particolare riferimento al potere di piattaforme quali Microsoft Windows che regolano un intero ecosistema grazie alle interfacce di programmazione delle applicazioni (API). Gli studiosi hanno affermato che le piattaforme svolgono il ruolo "di chi detta le regole, le controlla e le fa rispettare". Di fatto, le aziende che vogliono partecipare alla digital economy oggi sanno bene che le regole si trovano negli oscuri contratti di servizio delle piattaforme e del cloud, anziché nei tradizionali "testi di legge". 

Il potere economico è gradualmente diventato anche potere politico. Gli algoritmi che moderano i contenuti hanno acquisito un'influenza enorme sul dibattito pubblico, tanto da convincere alcuni a fare la guerra, altri a opporsi ai vaccini e diffidare dalla scienza e dalle istituzioni pubbliche. Hanno influenzato il referendum per la Brexit, diverse elezioni negli USA e la retorica politica in tanti paesi. Hanno sfruttato le vulnerabilità degli utenti in nome del profitto e dello user engagement. Il loro approccio non interventista ha incoraggiato gli attacchi contro i Rohingyas in Myanmar. E anche quando i creatori delle piattaforme hanno cercato di controllarle, queste hanno semplicemente voltato loro le spalle. Ad esempio, un recente studio interno di Twitter ha trovato evidenza del fatto che l'algoritmo utilizzato finisce per amplificare i contenuti politici di destra.

Al contempo, le piattaforme sminuiscono il ruolo delle agenzie pubbliche di regolamentazione per quanto attiene l'imposizione del rispetto delle regole. Basti ricordare qui la proposta di Apple di vigilare su internet offrendo un servizio di scansione di immagini, con i propri dispositivi, che potrebbe segnare l'avvento di "scansioni lato cliente", uno strumento questo che andrebbe a sostituire la funzione di controllo e “polizia” delle autorità pubbliche. Recentemente, Ian Bremmer ha paragonato l'agilità con cui i colossi del tech hanno reagito all'assalto al Campidoglio con la reazione lenta e incerta delle autorità pubbliche e del potere politico. Questo confronto mostra, ancora una volta, la profezia fatta ormai da tempo da Lessig, secondo la quale nel cyberspazio "i codici, non le leggi, definiscono la misura del possibile". Mentre Twitter e Facebook hanno agevolato la diffusione di contenuti estremisti (es. QAnon) prima dell'attacco al Campidoglio, si sono poi rivelati altrettanto rapidi nel controllare il proprio territorio dopo l'evento: Twitter ha cancellato 70.000 account, vale a dire circa il 60% della presenza di QAnon. Il mondo intero ha potuto osservare che un ente privato l'Oversight Board di Facebook, e non un tribunale o un’istituzione pubblica, ha validato la “sentenza su Donald Trump, a conferma della decisione che fu presa nel maggio 2021 immediatamente dopo i fatti del Campidoglio. Non sorprende, pertanto, che alcuni commentatori abbiano iniziato a paragonare le piattaforme a regimi autoritari.

L'aumento di potere delle piattaforme, tuttavia, non è infinito. I politici, le autorità di regolamentazione, le aziende e la società civile in tutto il mondo si stanno mobilitando per invertire questa tendenza. Aziende come Epic Games e Spotify stanno reagendo alle pratiche di sfruttamento di Apple. Diverse autorità antitrust hanno aperto indagini contro Alphabet, Amazon, Apple e Facebook. I governi, dagli Stati Uniti alla Cina, dal Giappone alla UE, stanno cercando di riprendere in mano il proprio ruolo di regolamentatori. Nel 2022 ambiziose proposte legislative della UE, quali la legge UE sui servizi digitali e la legge sui mercati digitali, tenteranno di introdurre vincoli normativi per il comportamento delle piattaforme, e promuovere la contendibilità in un mondo in cui da ormai dieci anni non si sono fatti avanti veri nuovi competitor. Il Congresso degli Stati Uniti ha avviato un percorso, non certo semplice, che potrebbe portare all'emendamento del Paragrafo 230 del Communications Decency Act, che protegge le piattaforme da eventuali responsabilità in caso ospitino contenuti pericolosi. Probabilmente, regole su un uso responsabile dell'IA e una nuova generazione di leggi sulla governance della privacy e dei dati, in particolare in UE, limiteranno la libertà di cui hanno goduto sinora tutte le piattaforme. 

Ma questo tentativo di recuperare il controllo avrà successo? Pare certo, a un primo sguardo, che i governi non potranno portare indietro le lancette dell'orologio. Peraltro, nemmeno esiste uno stato di grazia a cui si potrebbe tornare: un cyberspazio felicemente retto dalle leggi pubbliche di fatto non è mai esistito. L'unica soluzione che si intravede per le autorità di regolamentazione e vigilanza potrebbe essere quella di imparare a usare le tecnologie digitali proprio quando si tratta di disciplinarle. Le normative non avranno successo senza nuovi strumenti, dalle ispezioni degli algoritmi al monitoraggio in tempo reale, attraverso le cosiddette soluzioni RegTech. Sarebbe altresì un fallimento, anzi le cose potrebbero peggiorare, se i governi decidessero di fare da soli: nessuna istituzione, infatti, è in grado di tenere il passo, di avere la stessa plasticità e agilità delle aziende tech. In alternativa, fornire alla società civile e alla comunità degli informatici gli strumenti per guardare dentro agli algoritmi delle piattaforme, come pure dare il potere ai lavoratori di scavare dentro gli algoritmi usati nel proprio luogo di lavoro, potrebbe essere la soluzione a una delle maggiori sfide a livello di regolamentazione mai affrontate nella storia umana. 

 

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AUTORI

Andrea Renda
CEPS

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