Tira una brutta aria per gli ingegneri informatici della Silicon Valley. I licenziamenti annunciati da Mark Zuckerberg sul blog di Meta sono solo gli ultimi di una lunga serie per i dipendenti delle Big Tech. Nel corso dell’anno sono stati circa 30mila i licenziamenti decisi dalle maggiori aziende tech americane, in alcuni casi con un impatto significativo sulla propria forza lavoro. Secondo CNBC, la decisione di Meta non ha precedenti per valore assoluto (supera perfino i licenziamenti di Tesla) e colpisce il 13% del totale dei dipendenti. Una percentuale impressionante per gli standard europei – più di uno su dieci – ma comunque inferiore da quanto stabilito da altre tech company. Come Twitter, che si sta liberando della metà della propria forza lavoro, o Robinhood – l’app di trading diventata famosa con il fenomeno wallstreetbeats – che ha deciso un taglio del 31%. A queste vanno aggiunte anche le società che non hanno licenziato bensì congelato le assunzioni, come scelto da Amazon e Apple per gran parte delle proprie divisioni.
Frenata a sorpresa
Secondo dati riportati da Reuters, nei mesi estivi – dunque prima della decisione di Meta – i licenziamenti nel settore tecnologico già superavano tutti quelli decisi da gennaio 2021 ad aprile di quest’anno. Il perché di questa (temporanea) débacle lo spiega Zuckerberg nella lettera inviata ai dipendenti: “in molti prevedevano che [l’enorme crescita dell’online] sarebbe stata permanente e che avrebbe continuato anche una volta che la pandemia fosse finita. Lo pensavo anche io, e così ho deciso di incrementare significativamente i nostri investimenti. Sfortunatamente, non è andata come previsto”. In effetti chi avrebbe mai immaginato fino all’anno scorso che Big Tech sarebbe stata messa in ginocchio?
Come ricordato nell’ultima newsletter di SoldiExpert, Barron’s – il settimanale finanziario più diffuso negli USA – ad agosto 2021 scriveva in copertina: “L’inarrestabile crescita del Big Tech - La grande tecnologia non potrà essere fermata”. Nell’articolo interno si leggeva che “Le cinque megacap (Facebook, Amazon, Apple, Microsoft, Google) hanno ancora i migliori modelli di business del pianeta e le loro azioni sembrano relativamente economiche. Gli investitori dovrebbero possederli tutti”. Oggi, poco più di un anno dopo, le cinque società hanno perso più del 43% a Wall Street dall’inizio dell’anno, con Meta (ex Facebook) che ha lasciato sul terreno addirittura il 70%.
Utenti in calo e tassi in crescita
Zuckerberg ha ragione. Secondo i dati di DataReportal nel secondo trimestre 2022 il tempo mediamente speso ogni giorno su internet è tornato sotto ai livelli del 2019, quando le pandemie globali trovavano spazio solo nelle sceneggiature hollywoodiane. Un calo che si è verificato per tutte le generazioni e perfino in mercati in crescita, come il Medio Oriente e l’America Latina. Trend che Meta ha subito sulla propria pelle, visto che alla fine del 2021 gli utenti di Facebook calarono per la prima volta nella storia. E poi c’è l’altra parte della storia: il rialzo dei tassi di interesse da parte delle banche centrali, che ha colpito i soggetti più indebitati, tra gli Stati, come anche tra le società private. Oggi che il denaro costa più di ieri, investire in società che ancora non producono utili dopo anni di attività – come Robinhood e Uber – o che perdono più di 9 miliardi di dollari all’anno su business (oggi) futuristici come il Metaverso – come accaduto proprio a Meta – sembra non allettare più gli investitori.
Chiariamoci: è improbabile che mercati come l’e-commerce, lo streaming e l’advertising online siano destinati al fallimento. Ma quel che sembra ormai certo è che non basta più puntare sui cosiddetti megatrend del futuro per assicurarsi un successo ineludibile. Come tra l’altro già ci ha insegnato la bolla delle dot-com, da cui il business online si è risvegliato più robusto di prima, mietendo numerose vittime.