La decisione di Twitter e Facebook di sospendere temporaneamente e poi indefinitamente gli account personali del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha scatenato reazioni contrastanti e polarizzanti, come spesso succede quando al centro della scena c’è l’attuale Presidente uscente. In molti hanno sostenuto che finalmente fosse arrivato il tanto aspettato momento in cui si è punito Trump per aver violato ripetutamente i termini di servizio e di utilizzo delle piattaforme. Altri, invece, hanno gridato alla censura, al voler silenziare un leader politico con milioni di followers e alla fine della democrazia online. Nella bagarre in corso è necessario soffermarsi ad analizzare la scelta effettuata dalle piattaforme alla luce di dinamiche politiche tipiche delle fasi di fine mandato.
Non c’è dubbio che il Presidente Trump abbia violato ripetutamente gli standard delle piattaforme online di cui faceva parte. Nel lungo post pubblicato da Twitter il giorno della sospensione definitiva, emerge un’analisi esaustiva degli ultimi tweet del Presidente, da cui emerge una “glorificazione della violenza” che va contro la policy della piattaforma in materia. La lista dei tweet controversi però è molto più lunga e va a ritroso nel tempo. Già nel 2015, ancora prima di essere eletto Presidente, Trump aveva usato Twitter per scagliarsi contro i mussulmani e in molti lo avevano accusato di incitare all’Islamofobia. Successivamente, nel 2017 Trump pubblicò un meme dove faceva la lotta con il logo della CNN, generando un immaginario di aggressione ai media. In seguito nei mesi scorsi, durante gli scontri e le rivolte a seguito dell’uccisione di George Floyd, Trump pubblicò una serie di tweet infuocati, come “when the looting starts, the shooting starts”, accusati di “glorificare la violenza”. In tutti questi casi i post sono stati mantenuti. Dal canto suo, in occasione dei post durante Black Lives Matter, Mark Zuckerberg dichiarò che “Facebook non può essere l’arbitro della verità”.
Le policies dei social
Emerge chiaramente che per tutto questo tempo le piattaforme social avevano mantenuto un atteggiamento diverso rispetto ai contenuti pubblicati da Trump sui suoi account. In un’intervista rilasciata nel novembre 2020 da un portavoce di Twitter a The Verge, viene spiegato come i profili di leader mondiali, politici e altri funzionari pubblici siano soggetti a una policy diversa da parte della piattaforma, in quanto considerati di pubblico interesse. Pertanto, c’è una soglia di tollerabilità rispetto a possibili post controversi che altri utenti non hanno. Infatti, nei casi dei leader politici, la piattaforma interviene con alcuni avvisi agli utenti in cui si contestualizza il post e si indica che esso vìola gli standard della comunità ma che lo si mantiene per “interesse pubblico”. Questa politica è stata alla base delle scelte di mantenere i post di Trump, anche quando “glorificavano la violenza”.
Il cambio di rotta
Tuttavia, nei giorni scorsi questa motivazione non ha più retto e la politica di “tollerabilità” per fini di pubblico interesse è finita. Cosa è successo? Aldilà delle imperscrutabili reazioni emotive di Mark Zuckerberg e Jack Dorsey di fronte alle immagini dell’invasione del Congresso da parte di una folla aizzata anche dai post di Trump, le scelte di silenziare gli account del Presidente s’inseriscono in logiche politiche ben conosciute. Infatti, in regimi politici particolarmente accentratori e dove vi sono pratiche di spoil system molto diffuse, nel momento in cui il capo del governo o il presidente sono inesorabilmente diretti verso un avvicendamento si assiste al fenomeno dell’abbandono della nave che affonda. Tale processo è tanto più evidente quanto è maggiore l’accentramento del potere di un leader. Lo stile di governo che ha caratterizzato l’amministrazione Trump è stato decisamente accentrante.
In questi contesti la fuga dal “Principe” riguarda innanzitutto le élite private (economiche, finanziarie, mediatiche, ecc.), che a lungo hanno costituito quel nucleo di potere intorno al Presidente e che ne hanno garantito sostegno e stabilità. Trump ha cominciato a perdere pezzi in diversi settori specialmente privati, dalla Fox News alle élite finanziarie di Wall Street, fino ai social network. Queste dinamiche di élite non sono niente di nuovo e caratterizzano le transizioni in moltissimi regimi nel mondo.
Chi deve decidere?
Tuttavia, la peculiarità della politica contemporanea caratterizzata dallo strapotere dei social networks pone di fronte a questioni di liceità rispetto alla scelta dei big tech di “abbandonare la nave” e chiudere i profili del Presidente in declino. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha criticato duramente Twitter, definendo la scelta “una violazione problematica della libertà di parola”. Tale osservazione è in linea con l’approccio europeo per quanto riguarda il ruolo e le responsabilità dei social network nella società e nella politica. Nel corso degli anni l’Unione europea ha difatti sviluppato una serie di strumenti volti a regolamentare e a responsabilizzare le piattaforme, specialmente per quanto concerne la diffusione di messaggi falsi e violenti. Si tratta di un approccio estremamente innovativo ma che purtroppo, per il momento, incontra il limite della “volontarietà” delle piattaforme a sottoscrivere qualsiasi tipo di collaborazione con le autorità pubbliche europee.
L’Unione europea può sicuramente vantare un leverage importante a fronte dei big tech americani, ma servirebbe innanzitutto una presa di posizione del legislatore americano che intervenga a definire quali sono i limiti, gli standard e le responsabilità delle piattaforme per quanto riguarda la gestione dei contenuti e degli account. Non si può lasciare in mano ai privati la gestione di un potere così grande e vitale per le nostre democrazie.
La strada verso la definizione di regole e di responsabilità per i social network da parte del legislatore USA potrebbe non essere semplice o persino neanche intrapresa. La concezione delle libertà di pensiero e di parola si discosta tra le due sponde dell’Atlantico. Se dal lato europeo in molti Paesi abbiamo leggi che definiscono responsabilità rispetto a quello che si dice, negli Stati Uniti lo Stato è restio a farsi arbitro nell’ambito della libertà di parola o di pensiero. Ne consegue che è la società stessa, quindi anche i privati, a stabilire condotte morali da seguire (vedi la questione della political correctness), la cui adozione è determinata spesso da motivi personalistici e arbitrari. La scelta di chiudere i profili social del Presidente Trump, come abbiamo visto, molto probabilmente sarebbe dovuta avvenire tempo prima e non per via di un’opportunistica scelta politica, ma a fronte della presa d’atto di una violazione degli standard definiti dal legislatore e implementati responsabilmente dal gestore della piattaforma.