«Ragazzi, dobbiamo scegliere. O ci teniamo le nazionalizzazioni e non otteniamo gli investimenti o rinunciamo al nostro atteggiamento e otteniamo gli investimenti». Mandela aveva già scelto ma era suo costume convincere prima anche i suoi. Era appena tornato da Davos e al World Economic Forum l’accoglienza che gli aveva riservato il capitalismo mondiale era stata trionfale. Gennaio del 1992 stava finendo: l’Urss non esisteva più e con essa il comunismo fuori da Cuba, dalla Siria e dalla Corea del Nord. Il grande business e una nuova parola, “globalizzazione”, erano la promessa.
Sei mesi più tardi a Johannesburg la prima cosa che mi diedero entrando alla Shell House, il nuovo quartier generale dell’Anc ancora fresco di clandestinità, fu un opuscolo di 45 pagine: Pronti a governare. Non era proprio quello che ci si aspettava dal Merg, il gruppo di ricerca macro-economica che il partito e i suoi alleati – comunisti e Cosatu, il grande sindacato – avevano affidato a Vella Pillay. L’obiettivo del Merg era di dare strumenti al progetto economico che per decenni aveva accompagnato la lotta contro l’apartheid: “Crescita attraverso la redistribuzione”.
Quell’opuscolo di 45 pagine pubblicato nel maggio 1992, diceva cose opposte. Lo stato «dovrebbe adattarsi in modo flessibile ai bisogni dell’economia nazionale». Bisognava stimolare «crescita economica e competitività». «L’Anc non si oppone alle grandi imprese in quanto tali». Antitrust e altre regole dovevano essere applicate «concordemente con le norme e la pratica internazionali». Fine delle nazionalizzazioni e dell’ideale socialista al quale nemmeno Joe Slovo, il grande leader del Sacp, il partito comunista, credeva più. Non erano Pillay e il Merg a definire la politica economica del futuro Sudafrica ma due giovani, Trevor Manuel e Tito Mboweni. Tornato da Davos, Mandela li aveva mandati a Washington, in visita al Fondo monetario internazionale.
Il World Economic Forum non era stato una scoperta ma una conferma dei dubbi che Nelson Mandela coltivava da tempo. Come per il passaggio dalla lotta armata alla ricerca di una soluzione politica e pacifica, il balzo culturale dalla nazionalizzazione dell’Anglo-American all’economia di mercato era stato graduale ma deciso. «È uno dei tipi più conservatori che mi sia mai capitato d’incontrare», aveva detto Arthur Miller già nel 1990, pochi mesi dopo la liberazione di Mandela dal carcere. Uno dei nuovi amici alle sue parche cene di lavoro era Harry Oppenheimer, il simbolo del capitalismo sudafricano.
Il quadro internazionale radicalmente cambiato e l’eredità lasciata dall’apartheid furono decisivi nella svolta economica di Mandela. Erano disoccupati il 30% della popolazione nera (il 79% dei sudafricani) e il 5% di quella bianca (il 10%). Poveri erano il 61% degli africani e l’1% degli europei.
Più di ogni statistica, l’eredità economica dell’apartheid era in quel che aveva detto negli anni Cinquanta Hendrik Verwoerd, ministro per gli Affari nativi e poi premier: «Non c’è posto per i Bantu nella comunità europea al di sopra del livello di alcune forme di lavoro. A cosa serve insegnare la matematica ai bambini Bantu quando non la potranno usare nella pratica? Sarebbe decisamente assurdo».
Il colonialismo europeo aveva devastato l’intera Africa ma nessuna delle forme tradizionali di decolonizzazione economica applicate nel continente aveva avuto successo. Dopo la disuguaglianza razziale, in Sudafrica esisteva una seconda verità. Il paese era una potenza economica, la Borsa di Johannesburg era la diciottesima al mondo per capitalizzazione. L’ennesima sfida che Mandela decise di affrontare era semplice in teoria, ai limiti dell’impossibile nella pratica: trasferire il potere politico alla maggioranza nera, lasciando quello economico ai bianchi. Insieme avrebbero gradualmente creato una società equa. Serviva tempo. Mandela sapeva che ne occorreva molto. Nessuno sapeva quanto la realtà sul campo avrebbe concesso.
Trevor Manuel, nuovo ministro delle Finanze, fu incaricato di redigere il Gear (Growth, Employment and Redistribution). Parallelamente fu creato l’Rdp, il Piano per la ricostruzione e lo sviluppo. Il primo doveva garantire: disciplina fiscale, una crescita del 6% e 400mila posti di lavoro l’anno; il secondo: case, sanità, educazione per la maggioranza svantaggiata. Il Gear doveva creare le condizioni economiche perché l’Rdp attuasse i suoi programmi sociali.
Il risultato è controverso. Mandela si è ritirato nel 1999, Thabo Mbeki ha governato per 10 anni con Manuel alle Finanze e Mboweni alla Banca centrale, garantendo disciplina fiscale e una crescita stabile, senza intaccare sensibilmente le disuguaglianze né richiamare in Sudafrica livelli d’investimento internazionale paragonabili a quelli cinesi. Nel 2008 il reddito medio della maggioranza restava il 13% di quello della minoranza. La decisione dell’Anc di scegliere Jacob Zuma alla presidenza, il licenziamento di Trevor Manuel e Tito Mboweni, sono la prova che il tempo necessario per equilibrare la più diseguale delle società è superiore alla pazienza della maggioranza svantaggiata. Forse il vero problema del Sudafrica è un altro: avere avuto un leader eccezionale e irripetibile come Nelson Mandela.
Ugo Tramballi, giornalista «Il Sole 24 Ore».