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Commentary
Boko Haram tra incertezze e minacce sottovalutate
11 aprile 2016

Ci sono luoghi periferici e sconosciuti in cui all’improvviso, in determinati momenti storici, si concentrano tensioni e forze tali da trasformarli in centri d’interesse internazionale. Diffa, capoluogo a qualche chilometro dalla frontiera della Nigeria della regione più povera del paese più povero al mondo, il Niger, è uno di questi ombelichi geopolitici. Qui come nell’intera area attorno al Lago Ciad da oltre un anno è attivo Boko Haram,

Nonostante le promesse del presidente nigeriano Muhammadu Buhari, che all’indomani della propria elezione aveva sentenziato che entro dicembre dell’anno scorso non si sarebbe più sentito parlare di Boko Haram e allo scadere della propria profezia purtroppo non auto-avverante ha definito il gruppo “tecnicamente sconfitto”, la setta jihadista originaria del nord della Nigeria fa ancora parlare di sé. Più di 20.000 vittime e 2,6 milioni di sfollati dal 2009 rendono Boko Haram l’organizzazione terroristica più letale (perfino più dello Stato Islamico, v. Global Terrorism Index 2015) e meno conosciuta del panorama jihadista globale. La setta guidata da Abubakar Shekau, sul quale pende una taglia Usa di 7 milioni di dollari, è protetta da una coltre di nebbia che ancora avvolge la struttura di comando più stretta attorno al capo supremo, su cui non ci sono informazioni verificate.

Da quando nel marzo dell’anno scorso Shekau ha ufficializzato la domanda di affiliazione (baya) all’IS, gli attentati e le scorribande attribuite al nuovo brand “Stato islamico in Africa occidentale” sono sensibilmente aumentate. I continui attacchi a villaggi e città del Lago Ciad – a Diffa oltre 60 attentati nell’ultimo anno – dimostrano quanto i dirigenti africani (e non solo) continuano a sottovalutarne la minaccia. 

Mentre la richiesta d’affiliazione attende ancora risposta da parte dell’IS, la strategia operativa di Boko Haram è cambiata nel corso dell’ultimo anno. Se quella di Shekau resta un’organizzazione fortemente radicata nel tessuto e nei conflitti socio-culturali locali, il gruppo ha abbandonato le precedenti velleità di controllo di territori estesi, tornando a sporadici attentati contro i civili e a un conflitto asimmetrico contro gli eserciti della regione, nel rinnovato tentativo di erodere la coesione nazionale nelle regioni settentrionali della Nigeria (Adamawa, Borno e Yobe) così come nei paesi del Lago Ciad. Questa evoluzione è stata in parte causata dall’intensificarsi delle operazioni militari dell’esercito nigeriano, che durante lo scorso anno ha scacciato il gruppo dalle città del nord che prima controllava.

In trincee come Diffa si attende da troppo tempo ormai il dispiegamento della Multinational Joint Task Force contro Boko Haram a cui dovrebbero partecipare i paesi del bacino del Lago Ciad (Niger, Nigeria, Ciad, Camerun) e il Benin. Dopo una prima reazione militare agli sconfinamenti degli uomini di Shekau da parte degli eserciti di Nigeria e Ciad più di un anno fa, ora sul terreno sono rimasti solo degli avamposti. Ancora non pervenuti, invece, gli 8.700 uomini promessi e sbandierati dagli incontri internazionali. La forza multinazionale – a cui gli Usa avevano promesso 45 milioni di dollari, supporto logistico e formazione militare, da aggiungere ai 300 uomini e ai droni di sorveglianza dispiegati in Camerun – soffre soprattutto della contesa interna sul ruolo di leadership fra Nigeria e Ciad.

Intanto in Nigeria l’anno scorso è stato creato un comitato governativo per la riabilitazione dei terroristi pentiti, inserito nel programma di lotta a Boko Haram del presidente Buhari che, come promesso in campagna elettorale, cerca vie alternative al mero confronto militare. Diversi centri di “de-radicalizzazione e reinserimento nella società” sono stati aperti nel paese. Il governo ha dichiarato ad aprile che nelle prime settimane dal lancio dell’“Operazione corridoi sicuri” sarebbero già circa 800 gli ex-militanti redenti che frequentano i corsi di riabilitazione. Anche se i proclama del governo attendono di essere confermati da fonti indipendenti, questo programma potrebbe rappresentare l’inizio di un nuovo approccio, potenzialmente prezioso, alla lotta al terrorismo. Se questa modalità si dimostrasse efficace, paesi come il Mali o il Burkina Faso, alle prese con la recrudescenza del neo-jihadismo saheliano di al-Qaeda nel Maghreb islamico e accoliti, potrebbero seguire l’esempio della Nigeria.

Questa dichiarazione ad effetto del governo nigeriano, però, potrebbe avere a che fare con un altro angolo della strategia anti-terrorismo messa in campo da Buhari: la contro-propaganda. Prima l’apparizione a sorpresa di un video di Shekau, che si mostra debole e chiede ai suoi adepti di desistere e accettare una tregua; poi la notizia dell’arresto di Abu Usmatul al-Ansari, nome di battaglia di Khalid al-Barnawi leader di Ansaru – costola qaedista staccatasi recentemente da Boko Haram specializzata in rapimenti di stranieri e responsabile dell’assassinio dei due italiani Franco Lamolinara (2011) e Silvano Trevisan (2013) – e il fatto che stia collaborando; ora questa improvvisa ondata di defezioni e di attentati sventati (l’ultimo a Maiduguri, luogo di nascita della setta, l’8 aprile).

Secondo alcuni analisti ed esperti, infatti, queste informazioni sarebbero false, frutto di un’intossicazione mediatica architettata per screditare il gruppo e indebolirne le capacità di reclutamento e la presa su alcuni strati della società nigeriana. Il video di Shekau, di pessima qualità e malamente contraffatto, è stato subito smentito da un altro video, autentico, in cui un militante di Boko Haram coperto da un turbante nero sentenzia: “Non c'è tregua, non ci sono negoziati, non deponiamo le armi. Proseguiremo le nostre attività agli ordini del leader Shekau”.

Le violenze in questa parte di mondo, però, non sono monopolio di Boko Haram. A giugno 2015 il report di Amnesty International intitolato “Stars on their shoulders, blood on their hands” ha denunciato l’uccisione da parte delle forze di sicurezza nigeriane di circa 8.000 detenuti politici nelle carceri del paese. L’Ong calcola che dal 2011 il conflitto fra esercito e Boko Haram ha causato almeno 17.000 morti, di cui circa il 40% a seguito di arresti o rappresaglie delle forze armate. Più di 1.200 esecuzioni extragiudiziali e oltre 7.000 decessi in cella a causa delle torture, la fame, il sovraffollamento e la mancanza di assistenza medica per i detenuti.

Non c’è da stupirsi se quadri militari di Diffa raccontano che molti giovani disertori di Boko Haram percorrono lunghe distanze per consegnarsi nelle mani delle autorità nigerine, a loro dire più tenere nel trattamento dei prigionieri di guerra. Ogni giorno, al calare del sole, appena prima che entri in vigore il coprifuoco che da mesi conclude ogni giornata, file di pick up blu e verdi della gendarmeria e delle forze speciali anti-terrorismo nigerine sfilano sull’unica strada di cemento che porta in città. Il loro bottino giornaliero è esposto nei cassoni posteriori delle jeep: 20-30 ragazzini legati, bendati e inginocchiati come bestie, i vestiti stracciati, il destino segnato. Un ufficiale nigerino commenta la scena. “Finchè ci sarà solo disperazione e miseria per i nostri figli su questa terra continueranno a nascere banditi e trafficanti”.
Andrea de Georgio, Freelance journalist e ISPI Associate Research Fellow

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