Quello delle elezioni di domenica sarà un appuntamento tanto importante quanto delicato per i cittadini della Bosnia-Erzegovina. Dalla sua indipendenza, il paese vive in costante instabilità, dovuta soprattutto ai deficit di sovranità causati dalle spinte secessioniste interne, così come alla crisi economica che negli anni ha portato sempre più giovani bosniaci a cercare fortuna all'estero. A questo si aggiunge il contesto regionale e internazionale sempre più incerto, da cui la Bosnia continua a rimanere fortemente dipendente. Eppure, le ottave elezioni politiche della storia della Bosnia dovrebbero riconfermare, anche questa volta, il dominio di partiti etnonazionalisti, principali responsabili delle crisi politiche, sociali ed economiche degli ultimi vent'anni.
La presidenza tripartita: verso una paralisi istituzionale?
La chiave etnica sancita dagli Accordi di pace di Dayton del 1995 disegna la struttura interna del paese garantendo la rappresentanza dei tre popoli costituenti a tutti i livelli statali. Alla presidenza tripartita verranno quindi eletti i massimi rappresentanti bosgnacco, serbo e croato ed è proprio a questo livello che le elezioni di domenica potrebbero determinare il futuro del paese.
Mentre sembra scontata la riconferma del Partito d'Azione Democratica per il seggio bosgnacco con il candidato Sefik Dzaferovic, le sorprese potrebbero riguardare gli esponenti serbo e croato. Secondo alcune indiscrezioni, per entrambi i seggi si arriverà un testa a testa. Per i serbi, tra l'attuale presidente Mladen Ivanic e Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (una delle due entità in cui è suddiviso il paese); mentre per i croati, tra il presidente nazionalista Dragan Covic e Zeljko Komsic, del Fronte Democratico, partito di natura non nazionalista.
Qualora al fianco di Dzaferovic dovessero essere eletti Covic e Dodik, la presidenza si troverebbe composta da tre politici la cui convivenza potrebbe condurre il paese verso la massima instabilità. Da mesi, infatti, i partiti di Dragan Covic e Milorad Dodik sembrano aver instaurato un'intesa per il desiderio del primo di creare una terza entità, quella croata, che porterebbe ad un'ulteriore frammentazione amministrativa della Bosnia-Erzegovina. Dal canto suo, Dodik, dopo aver guidato per vent'anni i serbo-bosniaci, porterebbe i suoi sogni secessionisti al più alto livello dello Stato.
Come spiega su Osservatorio Balcani e Caucaso Alfredo Sasso, storico ed esperto di Bosnia-Erzegovina, “sarebbe la prima volta, nel già travagliato post-guerra, in cui due membri su tre della presidenza statale operano con l’aperto intento di ostacolare le istituzioni statali”. Nei mesi precedenti, le prove tecniche di questa intesa avevano portato ad una mozione di sfiducia congiunta dei due partiti per il ministro della Sicurezza Dragan Mektic, accusato di cattiva gestione della crisi dei migranti che da inizio anno ha coinvolto anche la Bosnia. Alla fine la sfiducia verso Mektic è saltata, mentre l'intesa tra Covic e Dodik resta, così come il rischio che il paese vada incontro ad una grave paralisi istituzionale.
L'incognita dei serbi di Bosnia
L'ago della bilancia per il futuro della Bosnia potrebbero essere gli elettori della Republika Srpska. Milorad Dodik sembra infatti non godere più dell'enorme popolarità che ha contraddistinto la sua ascesa politica, durante la quale è passato dalla carica di primo ministro a quella di presidente dell'entità a maggioranza serba. La nomina a massimo rappresentante dei serbi di Bosnia è ora ostacolata da una protesta civica sulla piazza di Banja Luka, capitale de facto della Republika Srpska. Il caso della morte di David Dragicevic – trovato morto lo scorso marzo in circostanze sospette – ha scatenato la protesta ad oltranza del padre Davor, che accusa dell’omicidio i vertici della polizia, nonché lo stesso Dodik. Alla protesta hanno aderito migliaia di cittadini, riunitisi nel gruppo “Giustizia per David”, che nella serata di venerdì 5 ottobre hanno raggiunto Banja Luka nel terzo raduno di massa dalla morte del ragazzo. Da mesi, queste proteste fanno tremare sia il partito di governo – che alla presidenza ha candidato la premier Zeljka Cvijanovic – che lo stesso Dodik.
Non stupisce quindi che la campagna elettorale del leader serbo bosniaco sia stata caratterizzata da aperte minacce sia nei confronti dei manifestanti sia di coloro che non voteranno per il partito di governo. “Se vedete qualche impiegato che vota per Govedarica [leader dell'alleanza dei partiti di opposizione], lo cacciamo dal posto di lavoro”, ha dichiarato Dodik in un meeting di campagna elettorale, di fatto riconoscendo apertamente il sistema clientelare che caratterizza la politica bosniaca.
Resta da vedere quanto le minacce di Milorad Dodik sapranno influenzare il voto di domani e, allo stesso tempo, quanto la manifestazione di venerdì saprà tradursi in supporto politico all'opposizione. Nell'estremo tentativo di ricompattare i consensi attorno al suo partito, nelle due settimane finali di campagna elettorale, Dodik è ricorso allo stratagemma dell'alleanza con la Russia: prima ha incontrato a Banja Luka il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, che ha però dichiarato che Mosca rispetta gli Accordi di Dayton e l'integrità territoriale della Bosnia; e poi è volato in Russia dal presidente Vladimir Putin, per riaffermare l'alleanza politica ed economica tra i due stati.
Un contesto regionale precario
Nonostante tutto, il destino della Bosnia potrebbe prescindere l'esito del voto. Negli ultimi mesi la regione balcanica è stata infatti attraversata da diversi momenti critici che ne hanno nuovamente compromesso la stabilità.
A tener banco per tutta l'estate è stata l'ipotesi di un piano di ridefinizione dei confini promosso dal presidente serbo Aleksandar Vucic e il suo omologo kosovaro Hashim Thaci. Secondo la proposta, la Serbia tornerebbe in possesso dei territori nel nord del Kosovo e a quest'ultimo andrebbero i comuni serbi della Valle di Presevo, abitati in maggioranza da albanesi. Molti analisti hanno evidenziato come questo piano avrebbe conseguenze dirette sull'intera regione, in primis la Bosnia, dove le ambizioni secessioniste serbe nel nome di una ricongiunzione con Belgrado sono sempre vive. Una modifica dei confini nei Balcani potrebbe avere un effetto a catena, aprendo il vaso di Pandora dei nazionalismi locali.
Lo stesso vale per la Macedonia e la sua minoranza albanese nella regione occidentale. Lo scorso weekend il paese ha mancato l'occasione storica di risolvere l'annosa questione del nome via referendum, fallito per non aver raggiunto il quorum. L'accordo con la Grecia firmato dal premier Zoran Zaev dovrà ora esser votato dal parlamento, dove il governo non poggia su una maggioranza sufficiente. La probabilità che si vada ad elezioni anticipate è alta e ancora una volta l'ago della bilancia potrebbero essere proprio i partiti della minoranza albanese, che tuttavia resta emotivamente distante dalla questione del nome.
Alla vigilia del voto bosniaco, che potrebbe terminare con un ulteriore situazione di instabilità nella regione, suona profetico il monito di martedì scorso al Parlamento europeo del presidente montenegrino Milo Djukanovic: “Il fallimento del referendum in Macedonia è un campanello d'allarme per Bruxelles”. Si tratta di una delle tante questioni irrisolte nei Balcani e non è detto che il risultato delle elezioni di domani in Bosnia non possa aprirne di nuove.
Nella Foto: Milorad Dodik