Botswana: qualcosa si muove nella “Svizzera d’Africa”
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Elezioni

Botswana: qualcosa si muove nella “Svizzera d’Africa”

Rocco Ronza
29 ottobre 2019

Il consolidamento della democrazia passa ancora dall’alternanza al potere tra maggioranza e opposizione, come sosteneva Samuel Huntington all’inizio degli anni Novanta? Se la domanda riguardasse l’Africa australe, la regione in cui da più di due decenni si concentrano i valori degli indici di stabilità democratica, di libertà politica, di protezione dei diritti civili e di sviluppo umano più alti del continente, la risposta potrebbe essere negativa. Il risultato delle elezioni generali celebrate nel Botswana il 23 ottobre scorso, che hanno prodotto l’ennesima riconferma al potere del Botswana Democratic Party (BDP) – la dodicesima di fila dai giorni dell’indipendenza nell’ormai lontano 1966 –, segue infatti di appena un anno la sesta vittoria consecutiva dell’African National Congress (ANC) in Sudafrica dalla fine dell’apartheid e la nona (undicesima se si contano anche i due referendum popolari del 2000 e del 2013) dello ZANU-PF, al potere nello Zimbabwe dal 1980. E con tutta probabilità sarà seguita, a poco più di un mese di distanza, dalla settima affermazione di seguito per la SWAPO, al governo in Namibia ininterrottamente dal 1989.

L’annuncio della vittoria del BDP e del presidente uscente Mokgweetsi Masisi, classe 1961, ottenuta con il 53% dei voti – che vale una maggioranza di 38 seggi su 63 nell’assemblea legislativa da cui dipende la nomina del capo dell’esecutivo – ha sorpreso una parte degli analisti internazionali, che nell’arretramento del partito di governo sotto la soglia psicologica del 50%, in occasione della precedente tornata elettorale (2014), avevano intravisto i segni del tramonto di quello che già allora era il predominio più lungo conservato da un partito politico in Africa. Ad alimentare le illusioni era stato anche il conflitto tra Masisi e il suo predecessore Ian Khama, che, approfittando di due decisioni criticate dai media internazionali, in materia di conservazione ambientale (l’abrogazione del bando alla caccia sportiva agli elefanti) e di diritti civili (l’opposizione dell’esecutivo alla decriminalizzazione dei rapporti omossessuali, sgradita all’elettorato più tradizionalista), durante la campagna elettorale si era schierato con una delle piccole forze di opposizione che da decenni tentano invano di mettere in discussione l’egemonia del BDP. La mossa, che ha ricordato l’abbraccio dell’ormai ritirato Robert Mugabe al candidato dell’opposizione alla vigilia delle ultime elezioni nello Zimbabwe, non ha però sortito effetti decisivi. Anche in questo caso, infatti, gli elettori rurali, che rappresentano da sempre lo zoccolo duro dell’elettorato filo-governativo, non hanno seguito le indicazioni del vecchio leader, ma hanno scelto di riconfermare la propria fedeltà al partito di governo.

In effetti, il BDP ha al suo attivo una lunga storia di successi. Unico a salire al potere nella regione senza passare da una fase di lotta armata, il partito fondato da sir Seretse Khama (padre di Ian ed erede di una famiglia reale tswana, divenuto celebre negli anni Cinquanta per l’opposizione al governo bianco di Pretoria e di una parte dell’opinione pubblica britannica al suo matrimonio con l’infermiera inglese Ruth Williams) ha sempre incarnato il volto più moderato e conciliante dell’africanismo post-coloniale. Anche per questo ha potuto legare il suo nome alla costruzione di una burocrazia statale considerata la più efficiente e meno corrotta del continente e a una gestione oculata e lungimirante delle ingenti risorse minerarie scoperte alla fine degli anni Sessanta (il paese è il secondo produttore di diamanti al mondo). Grazie ai proventi del commercio dei preziosi (il governo detiene ancora oggi la proprietà delle quattro miniere più importanti del paese in società con la De Beers), il Botswana, sotto la guida del BDP, è passato da essere il secondo paese più povero del globo, dopo il Bangladesh, a meritarsi il soprannome di “Svizzera d’Africa”. I 2,3 milioni di abitanti del paese (erano 400.000 solo nel 1950) hanno così potuto beneficiare di una crescita media annua con pochi paragoni al mondo (+9,2% dal 1966 al 1996), che si è tradotta in una serie di progetti di sviluppo locale, sanitario e educativo la cui gestione ha sofferto solo in minima parte della corruzione e degli sprechi comuni a molti altri paesi africani.

Questo non toglie che esistano buoni motivi per prevedere che il dominio del BDP non sia destinato a durare in eterno e che l’avvento di governi di coalizione (più che un’improbabile alternanza al potere) potrebbe essere ormai vicino. Il rallentamento della crescita economica causato dalla crisi del 2008 ha lasciato strascichi, e ciò spiega perché Masisi, subentrando a Khama nel 2018, si sia sforzato di cambiare l’immagine dell’esecutivo, enfatizzando la lotta alla disoccupazione e lo sforzo per diversificare un’economia basata quasi soltanto sulla produzione di diamanti. Il paternalismo tecnocratico delle istituzioni, inoltre, ha iniziato ad essere sfidato da proteste e movimenti di opinione che hanno messo a nudo la difficoltà dell’élite politica ad adattarsi alle nuove regole di trasparenza e di tolleranza del dissenso diventate centrali nell’era della democrazia globale, come hanno mostrato la reazione allo sciopero dei dipendenti pubblici del 2011 e lo stile autocratico imputato spesso all’ex comandante delle forze armate Khama durante il suo mandato presidenziale.

Tuttavia, la sorprendente resilienza mostrata dai regimi “a partito dominante” dell’Africa australe fa pensare che qualcosa dovrà essere aggiustato anche nei modelli interpretativi fin qui utilizzati, che probabilmente hanno sottovalutato la difficoltà di trovare alternative realistiche al ruolo svolto da questi partiti nella stabilizzazione politica e sociale dei rispettivi paesi. La loro capacità di sopravvivere al tramonto dei leader carismatici con cui si erano identificati sembra suggerire che, oltre alla leadership politica, anche altri fattori più “strutturali”, legati all’economia politica, alla struttura etnica e socio-economica e agli allineamenti politico-partitici, attendano ancora di ricevere tutta l’attenzione che meritano.

Ti potrebbero interessare anche:

Kenya: Ruto vince le elezioni (fra le polemiche)
Africa sospesa
Kenya’s Elections: Too Close to Call
Giovanni Carbone
Head, ISPI Africa Programme
,
Lucia Ragazzi
ISPI Africa Programme
The Ups and Downs of Kenya’s Evolving Institutions
James D. Long
University of Washington
Kenya’s Election and Economy: A Growth Challenge?
Giovanni Carbone
ISPI and Università degli Studi di Milano
Kenya: Food Insecurity Adds Pressure to the Electoral Campaign
Giorgia Amato
Università Roma Tre

Tags

botswana Africa
Versione stampabile

AUTORI

Rocco Ronza
ISPI e Università Cattolica del Sacro Cuore

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157