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Commentary

Brasile: il "milagro" alla prova delle riforme

14 novembre 2013

Per un programma sociale, dieci anni sono un compleanno importante. Non tanti piani riescono a perpetrarsi per tre successivi governi. Ancor meno, possono vantare di aver elargito 50 miliardi di dollari, togliendo dalla miseria quaranta milioni di cittadini. Quando, il 20 ottobre 2003, l’allora presidente Ignacio Lula da Silva decise di attribuire l’equivalente di 50 dollari alle persone che ne guadagnavano meno di 30 al mese, molti definirono la misura “inefficace” o, quanto meno, populista. Ancor meno compresero che “Bolsa Familia” – questo il nome del programma – rappresentava il fulcro di quello che il politologo André Singer avrebbe chiamato il “lulismo”. Il modello politico che ¬– al di là della sostituzione al vertice dell’ex sindacalista con la “delfina” Dilma Rousseff – ha retto il Brasile nell’ultimo decennio. Questo spiega perché Bolsa Familia possa essere considerata come la metafora dei dieci anni al potere del Partido dos Trabalhadores (Pt) (quello di Lula e Rousseff).

Il programma non è stato un’idea del tutto originale del primo governo di sinistra del gigante del Sud. Lula ha ampliato, sistematizzato e strutturato in un unico pacchetto una serie di misure sperimentate dal predecessore Henrique Cardoso. Tra queste, la più nota è Bolsa Escuela, un aiuto concesso alle famiglie più povere a patto che facessero frequentare ai loro figli la scuola primaria. Il che ha portato nelle classi brasiliane il 90 per cento dei bambini. Il Pt ha aggiunto al piano iniziale benefici per assistenza medica e microprestiti per ampliare il consumo degli abitanti delle baraccopoli, i cosiddetti “favelados”. Attualmente, sono oltre 14 milioni le famiglie supportate da Bolsa Familia.

La “esquerda” targata Pt ha uno stile politico pragmatico. Invece di investire tempo e, soprattutto, risorse nel “rifondare” lo Stato – come nel caso della Revolución bolivariana di Hugo Chávez -, il lulismo ha colmato le lacune lasciate aperte dal mercato. Dilatando i programmi sociali senza, però, fagocitare il settore privato. Né intaccare – e questa è la maggior critica che gli viene rivolta – le strutture di potere consolidato nella cosiddetta oligarchia. I ruralistas – grandi proprietari terrieri – hanno, al contrario, beneficiato della politica governativa di sostegno all’agro-business. Attraverso il “piano soia”, i latifondisti hanno ricevuto oltre 40 miliardi di dollari. All’agricoltura familiare, cioè a oltre quattro milioni di piccoli proprietari – sottolinea il sociologo Ricardo Barbosa dell’Università di Goias – sono andati meno di nove miliardi. La volontà di non alterare gli equilibri fondiari spiega le riluttanze sia di Lula sia di Rousseff a realizzare la tanto attesa riforma agraria. Quest’ultima è rimasta finora la grande promessa incompiuta del Pt: 900mila famiglie continuano a detenere l’80 per cento delle terre.  

E, tuttavia, non è stato il Brasile rurale dei contadini e indigeni senza terra a scuotere la nazione, dando vita alla maggior ondata di proteste dell’era democratica (cioè dal 1985). La raffica di manifestazioni estive – o invernali, a seconda delle latitudini – è stato un fenomeno tipicamente urbano. E ha coinvolto proprio i “figli” del modello-Lula: le classi medie e gli ex poveri, primi beneficiari dai programmi sociali. Questo mette in luce un altro elemento del cosiddetto “patto amplio” – perché aperto ai gruppi tradizionalmente tagliati fuori -, firmato Pt. L’inserimento nel tessuto economico di grandi fasce della popolazione prima escluse è avvenuto principalmente attraverso il consumo. La politica sociale del governo – in primis Bolsa Familia, ma anche Fome Zero e Minha casa minha vida, rispettivamente aiuti contro la denutrizione e per l’edilizia popolare – ha ampliato la capacità di acquisto dei settori marginali. Quaranta milioni di cittadini sono usciti dall’economia di mera sopravvivenza in cui erano stati confinati e relegati per secoli. Innescando un circolo virtuoso: maggior benessere, dilatarsi del mercato interno e, dunque, crescita della domanda e conseguente incremento della produzione industriale. Il “diritto universale” al consumo non è stato, però, accompagnato dalla parallela concessione delle principali prerogative di cittadinanza. Di quei servizi fondamentali – educazione, salute, mobilità - che rendono sostenibile e duratura nel tempo l’ascesa sociale delle classi marginali. Una volta soddisfatte, così, le esigenze di base, il popolo degli ex poveri ha iniziato a pretendere un accesso reale alla scuola, agli ospedali e ai mezzi pubblici. Strutture il cui funzionamento è limitato di fatto, oltre che dalla scarsità di risorse, dalla gestione troppo spesso clientelare delle stesse. Questo ha fatto sì che la protesta contro l’aumento di venti centesimi del biglietto del bus a San Paolo, a giugno, si trasformasse in una battaglia nazionale contro la corruzione e l’inefficienza dei servizi statali. Tale fermento, pertanto, si configura più come un effetto collaterale del nuovo Brasile nato dal lulismo che una sua negazione. Tanto che nemmeno nei cortei più radicali – a differenza, ad esempio, delle manifestazioni greche - risuonava lo slogan: “Fora Dilma”. 

Il fatto non è sfuggito all’occhio attento di Rousseff. Che ha scelto la via del dialogo. Il governo si è detto disponibile ad accogliere le principali richieste della piazza. Annunciando, in primis, una serie di misure anticorruzione. Miglioramenti nel Welfare e riforme per rendere più incisiva la partecipazione dei cittadini sono stati messi tra le priorità dell’agenda politica. 

La linea morbida ha consentito alla “presidenta” di recuperare parte del consenso perduto nell’acme delle dimostrazioni. Tra giugno e luglio, in meno di tre settimane di disordini, Rousseff ha bruciato 27 punti di popolarità, passando dal 54,2 per cento al 27,2. Le ultime inchieste la danno in “risalita” con un 38, 1 per cento. Un giudizio discreto ma non tale da rassicurare del tutto il Pt in vista delle elezioni del prossimo novembre. In cui, per la prima volta, il partito si troverà ad affrontare – oltre all’opposizione storica del Psdb, guidato da Aécio Neves – un rivale forte a sinistra: l’alleanza formata dall’ambientalista, Marina Silva, e i socialisti. E’ interessante notare che, di nuovo, nessuna forza politica metta in discussione gli innegabili progressi dell’ultimo decennio. “Brasil vai bom mais pode ir melhor” (Il Brasile va bene ma può andare meglio) è il leit motiv bipartisan. 

Per vincere, Dilma – che anche per questa tornata avrà il sostegno dell’ex mentore Lula – deve dimostrare di essere la legittima rappresentante di quelle strade in cui “il Pt è nato e vuole restare”, come ha detto il suo predecessore. E di saperne interpretare la volontà e accogliere le istanze.

In gioco c’è molto di più, però, della permanenza al potere di un partito. Dalla capacità del prossimo esecutivo – di qualunque segno – di garantire educazione, salute, trasporto, trasparenza agli ex favelados dipende il futuro stesso del “milagro” brasiliano. 

Lucia Capuzzi, giornalista, lavora nella redazione Esteri di Avvenire. 
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ISPI e Università Bocconi

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