Continua a perdere alleati la presidente del Brasile Dilma Rousseff, contro cui domenica 17 aprile la Camera potrebbe aprire un processo di impeachment. Dopo il Partito del movimento per la democrazia brasiliana (Pmdb), l’altro ieri hanno infatti annunciato l’abbandono dalla coalizione di governo del Partito progressista (Pp), del Partito repubblicano brasiliano (Prb) e il Partito social-democratico (Psd). In tutto 105 deputati che rischiano di essere decisivi per raggiungere i 342 voti necessari per mettere in stato d’accusa Dilma. Al momento mancano 4 voti secondo il quotidiano Folha de Sao Paulo, mentre il quorum dei due terzi previsto dalla Costituzione in caso di impeachment sarebbe stato raggiunto secondo gli altri due principali giornali del paese (Globo ed Estado).
Il condizionale è però d'obbligo e il risultato si saprà solo domenica 17 (verso le 21 in Italia), perché in Brasile “è tradizione che molti deputati cambino idea sino all’ultimo minuto a seconda di chi offre di più, in denaro ma soprattutto in incarichi milionari”, mi racconta con disincanto un ex reporter politico brasiliano che seguì per il quotidiano Jornal do Brasil, la prima elezione presidenziale del dopo dittatura, quella “indiretta” del 1985 tra Tancredo Neves e Paulo Maluf. “Vinse Tancredo – che poi non riuscì mai a insediarsi perché si ammalò –semplicemente perché pagò di più gli onorevoli. Io seguivo tutto da dentro il Parlamento e il modus operandi – allora come oggi – era il seguente, noto ai più. Passava l’emissario di Maluf e offriva ‘x’ all’onorevole “grande elettore”, neanche un’ora dopo passava dallo stesso l’emissario di Tancredo (che aveva un’intelligence migliore) ed offriva ‘x+y’ allo stesso deputato/senatore. Paradossale che oggi Maluf sia considerato un delinquente dall’Interpol – su di lui pende un mandato di cattura internazionale e, se uscisse dal Brasile, verrebbe immediatamente arrestato – mentre Tancredo, anche a causa della sua morte prematura (“e sorvoliamo su come José Sarney prese il suo posto …” sbuffa l’esperto e oramai ottuagenario reporter), non viene associato quasi mai alla corruzione elettorale, purtroppo una costante nella politica brasiliana.
Non deve stupire, quindi, che per tentare d’assicurarsi i voti dei deputati ancora ‘indecisi’ da oltre due settimane Brasilia si sia trasformata in un “mercato delle vacche” in cui, tanto la fazione che appoggia la presidente Rousseff (con in testa il suo mentore Lula) quanto quella che la vorrebbe mandare a casa, guidata dal vice presidente Michel Temer, offrono incarichi, ministeri e budget esorbitanti in un crescendo “rossiniano” da far accapponare la pelle ai difensori della morale politica.
Per questo, al di là dei numeri teorici dati dai media brasiliani, qualsiasi reale previsione della vigilia è impossibile. L’unica certezza è che, alla fin fine, vincerà chi pagherà di più il centinaio di deputati disposti a votare … a seconda del loro portafogli.
Entrando nel merito dell’impeachment, teoricamente i problemi di Rousseff derivano dalla bocciatura dei conti dello stato del 2014 da parte della Corte dei conti brasiliana (Tcu), avvenuta lo scorso ottobre. Un evento raro se si pensa che solo una volta è accaduto in passato, nel lontano 1937. Alla base della bocciatura del Tcu ci sono quelle che in Brasile i media hanno ribattezzato “le pedalate fiscali” di Dilma, ovvero l’aver deciso di prendere in prestito circa 35 miliardi di euro da banche statali con semplici decreti presidenziali e senza passare per l’approvazione del parlamento, il tutto per “truccare” il bilancio di fine 2014.
Un crimine fiscale che – “se reiterato” – è sanzionabile con la “messa in stato d’accusa” della presidente, come prevede chiaramente la Costituzione. Questo almeno sulla carta perché, a onor del vero, anche Lula tra il 2003 e il 2010 e, prima ancora, Fernando Henrique Cardoso, da presidenti avevano “pedalato”, seppure con un centesimo dell’intensità “ciclistica” di Rousseff.
Per questo, mentre i suoi avversari l’accusano di ogni malefatta, per i supporter del partito dei lavoratori, il Pt di Dilma e Lula, il tentativo di impeachment in atto è solo un “golpe parlamentare”, sull’esempio di quanto accadde nel 2012 in Paraguay, quando Fernando Lugo fu costretto a lasciare il potere in meno di 24 ore.
Il caso brasiliano è però assai differente, a cominciare dalla tempistica.
Il “golpe” contro Lugo si decise in una notte mentre in Brasile è dall’ottobre scorso – dopo la bocciatura del Tcu – che è iniziato l’iter contro Rousseff. Inoltre, anche se domenica dovesse passare l’impeachment, ci vorranno ancora una decina di giorni perché la questione arrivi al Senato e, prima di quest’ulteriore votazione, è pressoché certo che l’Avvocato generale dell’Unione (Agu), José Eduardo Cardozo, si rivolgerà ancora una volta al Supremo tribunale federale (Stf) per chiedere l’annullamento di tutto l’iter “per giusta causa”, adducendo che le “pedalate” di Dilma non sono state “reiterate”.
La richiesta di sospensione fatta ieri da Cardozo – adducendo irregolarità nell’analisi del relatore della Commissione sull’impeachment alla Camera approvata qualche giorno fa con 38 voti a favore e 27 contrari – e è stata insomma un “preliminare”, al fine di testare gli umori dello Stf e confondere media e opinione pubblica, ma in caso di votazione sfavorevole alla Camera per Rousseff, l’Agu è pronto a tornare di nuovo in campo.
Questo possibile, nuovo scenario – un colpo di scena che potrebbe annullare la procedura della Rousseff a prescindere dai voti contro di lei alla Camera, il prossimo 17 aprile – lo descrive bene l’ex magistrato Walter Maierovitch, presidente dell’Istituto italo-brasiliano Giovanni Falcone, secondo il quale, tuttavia, “l’ideale per la democrazia brasiliana sarebbe indire elezioni anticipate”. Solo che per farlo sarebbe necessaria la cassazione di Dilma e del suo vice Temer da parte del Supremo tribunale elettorale (Ste), istituzione che da mesi sta analizzando se la loro ultima campagna elettorale vincente (del 2014) sia stata finanziata in modo illegale, con denaro riciclato dalle tangenti Petrobras. Lo Ste dovrebbe pronunciarsi entro la fine di maggio e, dovesse decidere per la cassazione della “coppia” Dilma-Temer (oggi più che altro “un’ex coppia”, vista la tensione tra i due), necessariamente il Brasile tornerà a votare entro 90 giorni, poco dopo le Olimpiadi di Rio.
Una soluzione, questa che, nel caos politico-istituzionale del Brasile di oggi, potrebbe davvero essere – come sostenuto da Maierovitch – la più democratica.
Paolo Manzo, Analista esperto di America latina