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Commentary

Brasile a rischio Grecia? Allarme sui conti pubblici del gigante sudamericano

Giorgio Trebeschi
|
Carlo Cauti
29 settembre 2016

Il debito pubblico di Brasilia è in traiettoria crescente. Solo un limite alla spesa inserito in Costituzione potrebbe arrestare la rapida marcia verso il dissesto del bilancio dello stato.

“Il Brasile può diventare una Grecia”, così il ministro della Pianificazione brasiliano, Dyogo de Oliveira, ha enfaticamente spiegato la situazione dei conti pubblici brasiliani, la cui stabilità è minacciata dalla spesa pubblica che “cresce senza freni, indipendentemente dal ciclo economico e politico”. Secondo alcuni osservatori il tono di de Oliveira sarebbe eccessivamente allarmista. Per altri, invece, la situazione dei conti pubblici brasiliani è effettivamente molto complicata. Molti banchieri brasiliani, come ad esempio Ricardo Villela Marino, vicepresidente esecutivo del colosso finanziario Itaú-Unibanco, sono dello stesso parere: il Brasile può diventare la Grecia dell’America Latina se la traiettoria della spesa pubblica non cambierà drasticamente.

D’altra parte la spesa pubblica è cresciuta del 170% circa in termini reali negli ultimi venti anni (il Pil solo del 50%), con un significativo peggioramento dei conti pubblici brasiliani, nonostante il notevole aumento della pressione fiscale (al 32,7% del Pil nel 2015, contro una media dell’America Latina del 21,7%). La manifestazione più evidente di questo deterioramento è il deficit primario di 309 miliardi di reais nel biennio 2016-2017.

Una delle ragioni di questo tracollo dei conti pubblici, oltre alla dinamica della spesa, è anche la riduzione delle entrate negli ultimi due o tre anni. Le esenzioni fiscali concesse dal governo ad interi settori economici, unite alla recessione economica che ha duramente colpito il Brasile dal 2014, hanno abbattuto il gettito federale di due punti percentuali di Pil. I conti pubblici brasiliani, che per circa vent’anni si erano sempre chiusi con un surplus primario di circa il 3% del Pil, a partire dal 2014 sono passati in territorio negativo, fino ad arrivare ad un deficit primario del 1,9% nel 2015 (si prevede del 2,6% nel 2016). Va molto peggio con l’indebitamento netto che, a causa degli alti tassi di interesse che appesantiscono il servizio sul debito, é arrivato al 10,3% nel 2015 (di gran lunga il più elevato tra i Brics) e che le previsioni più ottimistiche indicano intorno al 9% nel 2016.

Anche il debito pubblico, inevitabilmente, è lievitato: nel 2016 si dovrebbe attestare al 70% del Pil e, in assenza di una crescita robusta e di una decisa correzione nei conti pubblici, potrebbe presto superare il 90%. Per avere un’idea, nel 2011 era di poco superiore al 50%.

L’aumento di spesa pubblica ha avuto come conseguenza diretta un’impennata inflattiva. Nel 2015 l’inflazione è tornata a doppia cifra, al 10,7%, dopo che dalla metà degli anni Novanta, col Plano Real, pareva essere stata definitivamente domata. È stato uno shock per i brasiliani, dato che l’inflazione è il segnale di allarme maggiormente percepito dalla popolazione, memore del prolungato periodo di assai elevata inflazione (a tratti vera e propria iperinflazione) durato per circa un quindicennio dalla fine degli anni Settanta. E il tasso di interesse di riferimento, la Selic, inevitabilmente è tornato a crescere, attestandosi al 14,25%. Ancora una volta, il Brasile presenta i tassi di interesse reali più alti del mondo.

Appare evidente come la traiettoria di spesa e debito è divenuta ormai insostenibile. Il Brasile cammina quindi verso una situazione simile a quella di paesi che sono collassati, come la Grecia. Per tornare ad avere risultati fiscali positivi e per stabilizzare la traiettoria del debito la manovra fiscale dovrà essere di almeno cinque punti di Pil nei prossimi anni e da sola la crescita economica non sarà sufficiente a far tornare il Brasile a registrare surplus primari.

In passato la crescente spesa pubblica è stata finanziata con emissione monetaria (e quindi con inflazione) e, in anni più recenti, con l’aumento della pressione fiscale. Queste opzioni non sono più disponibili nel menù del governo. Come abbiamo già accennato, i cittadini brasiliani hanno mostrato avversione all’inflazione e anche l’aumento delle imposte e dei contributi è un’eventualità inaccettabile per un paese in via di sviluppo dove la pressione fiscale raggiunge già oggi livelli quasi europei.

Considerando quindi il basso dinamismo dell'economia brasiliana e la difficoltà di aumentare la pressione fiscale, l’unica opzione a disposizione di Brasilia per tentare di invertire la traiettoria del deficit pubblico è quella del controllo delle spese.

La soluzione presentata dal nuovo esecutivo Temer è la Proposta di modifica Costituzione n° 241 (Pec 241, nella sigla in portoghese) che limita l’aumento di spesa pubblica all’inflazione dell’anno precedente per un periodo di vent’anni. Una volta in vigore, la Pec 241 impedirebbe al debito di continuare ad espandersi senza limiti, così come avviene oggi e, secondo i calcoli del governo porterebbe ad una sua riduzione della spesa pubblica di circa dieci punti rispetto al Pil entro il 2036. Il premio di rischio pagato per le incertezze sulla solvibilità futura si ridurrebbe; la rinnovata fiducia dei mercati sarebbe definitivamente riconquistata e la crescita economica incentivata, grazie ad una significativa riduzione dei tassi di interesse reali di lungo periodo e la possibile riduzione dell’imposizione fiscale. La Pec 241 sarebbe il simbolo dell’impegno di lungo periodo di tutta la società brasiliana a mantenere la stabilità dei conti pubblici, trasmettendo un segnale della capacità del gigante sudamericano di onorare i propri impegni finanziari. Per avere un’idea dell’impatto della manovra, il semplice annuncio della Pec 241 ha portato ad una riduzione di più di duecento punti base del Cds e all’apprezzamento del tasso di cambio.

Il problema è che i congressisti sono molto restii ad approvare un limite così stringente. Fino allo scorso anno la legge di bilancio inviata ogni anno dal governo al Congresso ha subito un trattamento molto simile a un “assalto alla diligenza”. E l’esecutivo brasiliano, per mantenere compatta la sua base alleata in un sistema politico definito “presidenzialismo di coalizione”, si è sempre piegato alle richieste di deputati e senatori, che hanno dirottato risorse il più possibile verso le loro rispettive circoscrizioni elettorali. Fino a quando l’economia tirava grazie all’export e al boom della domanda interna, si trattava di una situazione accettabile. Ma ora che il volume e il valore delle commodities vendute all’estero dal Brasile è crollato drasticamente, la festa sembrerebbe finita.

La Pec 241 dovrà essere approvata dal Congresso e il governo spera che i parlamentari apportino solo modifiche marginali alla proposta originaria, evitando di ‘annacquarla’ (o al come dicono i brasiliani di ‘disidratarla’) eccessivamente. Inoltre, bisognerà verificare se il limite di spesa varrà anche per gli stati, i cui bilanci sono da anni in profondo rosso, o solo per i conti federali.

Nondimeno, la Pec 241 non è la panacea di tutti i mali del bilancio pubblico brasiliano. In primo luogo perché, sebbene la trasgressione della regola sia di per sé considerata un “crimine di responsabilità” (lo stesso che ha portato all’impeachment di Dilma) non sono chiari in questo caso né meccanismi di punizione né le modalità di rientro da un eventuale sforamento del tetto di spesa. Inoltre, se la Pec definitiva non inciderà sulle rigidità di spesa previste dalla Costituzione del 1988 – in particolare gli aumenti automatici per quanto riguarda le spese di istruzione e sanità – le altre voci di spesa che dovranno necessariamente comprimersi sarebbero, tra le altre, quelle riguardanti gli investimenti pubblici. Una decisione che potrebbe azzoppare la ripresa economica di lungo periodo.

Infine, per risolvere definitivamente i suoi squilibri di bilancio il Brasile ha una serie di altre riforme da affrontare. La più importante, ed urgente, è quella della previdenza sociale, che assorbe il 50% del bilancio dello stato brasiliano e che non verrà affrontata nella Pec 241. Nel solo 2016 le spese per la previdenza sono cresciute di 50 miliardi di reais, e nel 2017 la previsione è che aumentino di ulteriori 57 miliardi di reais. Oggi rappresentano circa il 12% del Pil del paese sudamericano (la stessa percentuale del Pil del Giappone, un paese che ha il triplo degli anziani e un Pil pro capite di oltre quattro volte superiore). Ma il Congresso ha già fatto sapere al nuovo governo che non ha intenzione di votare una riforma della previdenza fino al 2017.

La strada per mettere in ordine i conti pubblici brasiliani è ancora molto lunga e tortuosa.

 

Giorgio Trebeschi, autore del libro “L’economia del Brasile”. 

Carlo Cauti, giornalista italiano di base a San Paolo del Brasile. Collabora regolarmente con diverse testate italiane e brasiliane

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Giorgio Trebeschi
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