«La Turchia è qui!», è uno degli slogan che è risuonato nella protesta brasiliana. E non c’è dubbio che c’è l’esempio di un’onda lunga di proteste che tra indignados, Occupy Wall Street, Primavere arabe, studenti cileni va ormai avanti da almeno tre anni, superando ormai per durata altre famose date “rivoluzionarie” del passato. Evidenti sono poi certe affinità. Come il Brasile è uno dei Brics, la Turchia è uno dei Civets (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sud Africa): paesi ad alta crescita economica di rincalzo immediato agli stessi Brics. Sia Dilma Rousseff sia Recep Tayyip Erdoğan sono arrivati alla testa dei rispettivi paesi dopo un lungo impegno politico che ha portato entrambi anche a finire in carcere: si tratta dunque di leader nuovi, protagonisti di un percorso di rinnovamento che è stato anche l’inevitabile risultato di questa crescita economica. Se vogliamo, c’è anche in comune l’esistenza di forze di polizia che non hanno una reputazione particolarmente anglosassone di gestione dei disordini di piazza. Il problema dell’islamizzazione strisciante di cui l’Akp è accusato, però, è un elemento che in Turchia è fondante nelle proteste, e in Brasile completamente assente. Inoltre, il sistema politico turco permette ormai da 10 anni all’Akp di governare da solo, e ciò ha compattato contro di sé l’opposizione, al punto che il kemalista Partito Repubblicano del Popolo ha potuto metterci il suo cappello sopra benché all’inizio fosse stato invece favorevole al progetto del centro commerciale in Gezi Park. Il sistema politico brasiliano è invece un’insalata di sigle in cui è impossibile governare senza mettere assieme eterogenee e trasformiste coalizioni di 10-12 partiti, l’opposizione è altrettanto fluida, e in effetti il movimento a San Paolo è iniziato contemporaneamente contro un sindaco del partito di Lula e un governatore dell’opposizione di centro-destra.
Più che alla Turchia, dunque, bisognerebbe pensare alla Spagna. Ma il fatto che i professionisti spagnoli disoccupati stiano da un po’ venendo a cercare lavoro in Brasile aiuta a chiarire come anche quest’interpretazione abbia i suoi limiti. In Spagna, come in Europa in genere, la protesta nasce in economie in crisi con una diffusa paura di declassamento. Malgrado il recente rallentamento il Brasile è invece un’economia in crescita, dove semmai il problema è che alla crescente disponibilità di beni di consumo non si è accompagnato un analogo innalzamento di servizi, infrastrutture e moralità della vita politica. Lo conferma un sondaggio sul profilo dei manifestanti: 77% con educazione superiore; 22% studenti; 53% con meno di 25 anni; il 56% manifesta contro l’aumento dei prezzi del trasporto pubblico; il 40% contro la corruzione; il 31% contro violenza e repressione; il 27% per avere una miglior qualità dei mezzi di trasporto; il 14% chiede il biglietto gratis; il 24% è contro i politici. Da notare che manca del tutto l’angoscia per il posto di lavoro, in testa alle preoccupazioni dei giovani europei. A proposito di politici: un altro sondaggio rivela che il 30% dei manifestanti interpellati alle prossime presidenziali voterebbe per il presidente del Supremo Tribunal Federal, Joaquim Barbosa, già protagonista dei processi per lo scandalo Mensalão; il 27% non voterebbe nessuno; il 22% voterebbe per Marina Silva, l’ecologista protestante e anti-abortista che dopo essere stata ministro di Lula e aver rotto con lui alle ultime presidenziali arrivò terza con un clamoroso 20%; il 10% voterebbe comunque per Dilma Rousseff; il 5% per il senatore Aécio Neves, esponente del Partito della Social Democrazia Brasiliana (Psdb) che è attualmente il più accreditato candidato del centro-destra; l’1% per il socialista governatore di Pernambuco Eduardo Campos.
Un po’, dunque, il quadro può evocare quello dell’Italia del 1968-69: un paese che cercava di adeguare la società alla crescita del miracolo economico. Un po’ quello dell’Italia di oggi, ossessionata da un problema di legalità della politica che sembra non riuscire a risolvere. Ricordiamo che in Brasile dopo il Mensalão nuovi scandali specialmente collegati alla gestione di Mondiali e Olimpiadi hanno costretto Dilma a destituire ben sette ministri l’uno dopo l’altro, e già nel settembre del 2011 un movimento di “senza partito” aveva occupato le strade per protestare contro la corruzione. In apparenza, le amministrative dello scorso ottobre sembravano aver dimostrato che queste proteste non avevano influenzato le grandi masse. Adesso, questa saldatura sembra essere stata resa possibile dalla battaglia contro gli aumenti dei trasporti.