Niente manifestazioni, poche polemiche e un’insperata unità nazionale. Il Brasile vive settimane concitate ma, il clima politico è un po’ meno rovente di qualche mese fa.
Sia chiaro, è solo una tregua. Dettata più dall’opportunismo che dalla gentilhommière dei leader politici. Le Olimpiadi in programma a Rio de Janeiro sono un appuntamento di importanza capitale che accenderà i riflettori di tutto il mondo sul paese.
A nessuno conviene mostrare a un miliardo e più di telespettatori un Brasile dilaniato dai conflitti sociali, mal governato e arreso di fronte alla triplice crisi che lo attanaglia: politica, economica e sociale.
La tregua armata terminerà il 21 agosto, giorno di chiusura dei Giochi. I problemi sul tappeto sono molti ed è altamente probabile si riaccendano le polemiche e le guerre politiche che hanno caratterizzato il primo semestre del 2016.
Il governo di Michel Temer, presidente ad interim del Brasile, dopo il “sì” di Camera e Senato all’impeachment di Dilma Rousseff, ha un’impostazione più liberista e meno dirigista di quelli precedenti. Né Rousseff, né Lula da Silva, avevano avviato riforme del sistema pensionistico o fiscale.
Il Brasile di Michel Temer spera nelle capacità di Henrique Meirelles, il neo ministro delle Finanze. In cima ai pensieri di Meirelles c’è la riforma del sistema pensionistico, una della priorità del governo; ha annunciato di avere allo studio una proposta per innalzare l’età minima della pensione e che l’aumento delle tasse sarà solo temporaneo. Meirelles ha inoltre aggiunto che l’obiettivo primario del governo di Temer è mettere sotto controllo la crescita del debito pubblico ed equilibrare i conti del paese. Saranno mantenuti i programmi sociali.
La squadra di Temer ha un’impostazione liberista, ma non è affatto scontato che il paese sia disposto a patire politiche economiche improntate all’austerity.
Anche perché la partita non è affatto chiusa, il Partito dei lavoratori (Pt) che ha espresso gli ultimi due presidenti, Rousseff e Lula, non ha gettato la spugna.
La crisi che affligge il Brasile – una recessione imputabile al crollo dei prezzi delle materie prime agricole di cui è esportatore, e una forte riduzione del suo primo acquirente, la Cina – non è superata e il malcontento sociale ha coinvolto decine di milioni di persone. Le stesse che erano state beneficiate dal boom economico della gestione Lula; un presidente che aveva incluso 35-40 milioni di brasiliani nell’agognata classe media. Ex poveri diventati consumatori. Un successo riconosciuto da tutti gli organismi internazionali.
Purtroppo un successo non duraturo, se è vero che molti di loro sono nuovamente scivolati verso la povertà.
La crisi sociale si spiega con la doppia delusione dei brasiliani: la prima è quella di non aver consolidato i progressi del decennio 2003-2013, la seconda è quella, forse ancora più amara, della disillusione. Il sistema politico brasiliano ha mostrato un tasso di corruzione troppo alto: tutte le principali forze politiche sono state accusate. Un sistema complesso e collaudato di tangenti che funzionava così: da Petrobras, il colosso energetico del paese, ai partiti politici.
“Nosso petroleo”, il “nostro petrolio”, così lo aveva chiamato il presidente Juscelino Kubitschek nei primi anni Sessanta, è stato depredato a vantaggio della politica e a svantaggio della popolazione.
Ecco perché il consenso superiore all’80% che l’ex presidente Lula aveva ottenuto solo pochi anni fa ora è scivolato sotto il 10% per Rousseff. Non solo lei, il discredito ammanta tutta la classe politica, e il neo presidente Temer non è escluso, né lui, né tanto meno il suo partito, il Partito del movimento democratico brasiliano (Pmdb), ormai ex alleato di governo del Pt di Rousseff.
Le priorità annunciate dal capo di governo, sintetizzate in tre stilemi, sono state queste: «Ristabilire la pace», «Unire il Brasile» e «Ricostruire l’economia». I nodi dell’economia sono questi: una decrescita marcata che nel 2016 continuerà a essere superiore al 3%, un’inflazione del 10%, un costo del denaro altissimo, una disoccupazione in crescita. Il modello economico dell’ex presidente Lula è stato dapprima giudicato «il migliore in assoluto» e, pochi anni dopo, il «peggiore in assoluto» dagli stessi organi di stampa americani, dalla stesse agenzie di rating, dagli stessi operatori finanziari. Probabilmente non era né il migliore né il peggiore: era semplicemente focalizzato sullo sviluppo dei consumi, volano della crescita, sulla centralità delle commodities e sull’eccessivo peso dello stato nelle decisioni delle grandi imprese.
E pensare che solo due-tre anni fa, Barack Obama, i leader europei e cinesi osannavano il Brasile, la sua politica e il suo modello di sviluppo.
È così. Questo grande paese, ci ha abituato all’imprevedibilità: nella politica, nell’economia e naturalmente nello sport. Il 16 luglio 1950, 224.000 persone (di cui 50.000 entrate illegalmente) restano impietrite per 40 minuti sui gradoni del Maracanà, dopo la finale dei Mondiali giocata tra Brasile-Uruguay, e persa per 2-1.
Otto anni dopo, il 29 giugno 1958, un ragazzino di 17 anni (Pelé), un ex poliomielitico con le gambe storte (Garrincha) e un panzone malato di cuore (Vicente Feola, l’allenatore) vincono la Coppa del mondo di calcio.
Gli antropologi sostengono che in tutti noi ci sia un po’ di Brasile. George Raynor, allenatore della Svezia, battuta in finale per 5-2. «Giocavano talmente bene che dopo dieci minuti tifavo per loro».
Roberto Da Rin, corrispondente de Il Sole 24 Ore