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Commentary

Brasile: una crisi di sistema

19 aprile 2016

«Non è l’inizio della fine. È il principio della lotta». Dilma, la guerrigliera – anche se, come ha più volte sottolineato, al posto delle armi, contro la dittatura impiegava volantini e giornali –, la “Lady di ferro” del lulismo, non è disposta ad arretrare. Il sì della Camera al procedimento di impeachment nei suoi confronti, non ha fiaccato la resistenza della presidenta, pronta a giocare il tutto per tutto al Senato. Là, probabilmente ai primi di maggio, ci sarà il secondo esame sulla richiesta di messa in stato d’accusa. Se questa otterrà la metà più uno dei voti consentiti (41), Dilma Rousseff verrà allontanata temporaneamente dall’incarico per 180 giorni. In tale periodo sempre il Senato – ma con una maggioranza di due terzi – valuterà l’accusa a suo carico: quella di aver ritoccato i conti pubblici per coprire la gravità della situazione finanziaria ed essere rieletta per un secondo mandato. Un espediente – le “pedalate fiscali” le definiscono i brasiliani – che è diventato prassi comune dei governi e mai, prima d’ora, è stata contestata. È evidente, dunque, che l’attuale querelle in corso nel “gigante latino” ha ben poco a che vedere con tale imputazione. In Brasile si assiste a una triplice crisi: economica, politica e istituzionale.

La brusca contrazione del Pil – 3,8% nel 2015 – è la scossa che ha fatto tremare il sogno – più o meno mitico – del “milagro” brasiliano. La recessione è dovuta, in primis, a fattori esterni. Anzi a un fondamentale fattore che è stato il motore del boom: il calo del prezzo internazionale delle materie prime. Dal carbone al ferro, dal petrolio alla soia, il valore complessivo si è contratto in media del 15%. Il contraccolpo sui paesi esportatori è stato vigoroso. La Commissione Onu per l’America Latina (Cepal), regione fornitrice per antonomasia di commodities, ha calcolato una perdita generale dello 0,4% lo scorso anno. Ovvio, la sferzata non ha colpito tutte le nazioni nello stesso modo. È stata al contrario proporzionale ai benefici accumulati durante il boom. Per il Brasile, dunque, il crollo dei prezzi delle materie prime è stato un pugno nello stomaco. Di più, uno choc. Per tutti i gruppi sociali: la nuova classe media, ex poveri strappati alla miseria dai programmi sociali del governo, sono terrorizzati all’idea di riprecipitare nel buco nero dell’indigenza; l’élite, in tempi di vacche magre, vede i suoi profitti ridursi e teme di dover continuare a pagare il conto dei sussidi; i giovani, cresciuti negli anni ruggenti delle mille e una possibilità, poco avvezzi a fare i conti con la crisi. 

Lo smarrimento è profondo. A farne le spese è stata la figura simbolo del boom perduto: l’ex presidente Lula. Tanto più che quest’ultimo è finito coinvolto nello scandalo Petrolão: un giro di mazzette milionario all’interno del colosso energetico nazionale. Ben inteso: le bustarelle in cambio di contratti venivano elargite a esponenti di tutti i partiti, di governo come d’opposizione. Per la prima volta, però, nell’inchiesta è finito anche il nome intoccabile di Lula. Ai tempi del caso mensalão, nel 2005, quest’ultimo non era stato direttamente menzionato. Ma soprattutto, allora, l’economia cresceva con punte superiori al 4%. Era più facile per l’opinione pubblica chiudere un occhio. Ora no. Questo spiega l’eco amplificata degli scandali per corruzione, cavalcati dai media, molti dei quali non proprio obiettivi.

Più di Lula, però, a pagare il conto più salato è stata la sua meno carismatica delfina: Rousseff, un’amministratrice efficiente ma poco avvezza alle mediazioni. L’opposto del suo predecessore. La Camera, dunque, ha finito per ribellarsi, come dimostra il via libera alla procedura di impeachment. Curioso, però, che la presidenta sia sospettata di aver ritoccato i conti pubblici ma non di corruzione, al contrario del suo principale accusatore, il parlamentare Eduardo Cunha. Quest’ultimo è formalmente indagato per sospetti movimenti di denaro intorno a Petrobras, a differenza di Rousseff, che nel caso in questione non è coinvolta. Ma non solo. Il 60% di deputati e senatori, inoltre, afferma Trasparencia Brasil – la filiale locale di Transparency International –, ha qualche tipo di accusa pendente. È evidente, dunque, che la crisi non è circoscritta alla sola presidenza, bensì riguarda l’intero apparato istituzionale. Se, nel 1992, con il primo impeachment della storia dell’America Latina, nei confronti dell’allora presidente Fernando Collor de Melo, il Brasile era convinto di fare pulizia “cacciando” il leader corrotto, ora lo scenario è più complesso.

Come riuscire a chiudere questo drammatico capitolo e voltare pagina? Rousseff giura che se la lasceranno lavorare, riuscirà a far fronte alla recessione. L’opposizione, da parte sua, sostiene di essere l’unica in grado di poter restituire credibilità al paese sui mercati internazionali. Il rischio è che entrambi perdano le “debite proporzioni” e lascino l’opinione pubblica in balia di se stessa, facile preda di populismi dell’ultimo minuto o di derive anti-politiche. 

Il paese è spaccato. Il 60% – sostengono gli ultimi sondaggi – è favorevole all’impeachment. Gli umori, però, sono repentini, cangianti, estremi, mentre la polarizzazione è alle stelle. Purtroppo, tutte le parti – inclusa la parte terza per definizione, i giudici, che hanno trasformato le inchieste in show – hanno cavalcato l’onda emotiva. Una carta pericolosa perché facilmente sfugge di mano e finisce per travolgere ogni cosa. Il che è sempre negativo ma in una democrazia giovane – i militari hanno lasciato il potere nel 1985 – rischia di avere effetti catastrofici. 

Lucia Capuzzi, giornalista, lavora nella redazione Esteri di Avvenire.

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ISPI e Università Bocconi

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