L’anno elettorale in Brasile è iniziato nel segno dello scontro, che appare sempre più inevitabile, tra il presidente Jair Bolsonaro e l’ex presidente Lula da Silva. I sondaggi delle ultime settimane danno infatti i due virtuali candidati come le opzioni preferite per un ipotetico ballottaggio di secondo turno alle presidenziali di ottobre. Al momento Lula è dato come favorito, quotato con oltre il 40% delle intenzioni di voto, mentre Bolsonaro non supera il 25%. Staccatissimi i nomi papabili della cosiddetta “terza via”, l’ex giudice della Lavajato Sergio Moro, l’eterno candidato progressista Ciro Gomes e il governatore di San Paolo Joao Doria. Tutto ancora può succedere, il Brasile ci ha abituato a rocamboleschi colpi di scena, ma più il tempo passa e più sembra difficile che qualcuno si possa inserire in extremis tra i due. Lula e Bolsonaro, del resto, sperano che vada così perché le loro chances crescono proprio come antagonisti uno dell’altro, si “alimentano” a vicenda rappresentando visioni e opzioni di governo radicalmente distinte.
Lula ha iniziato l’anno col piede giusto, favorito dai sondaggi e con il suo Partido dos Trabalhadores (PT) che punta a creare 5.000 comitati in appoggio alla sua candidatura, coinvolgendo anche le altre forze progressiste che gli gravitano intorno. Mentre la base compatta il voto a sinistra, con la sponda importante dei sindacati e di solide organizzazioni sociali come il movimento dei senza terra (MST), Lula tesse la sua rete di alleanze al centro con baroni regionali, governatori statali, sindaci e persino con ex rivali politici come quel Gerardo Alckmin (suo sfidante nel 2006) che ha abbandonato il moderato PSDB (Partito della social democrazia brasiliana) per approdare al PSB (Partito socialista brasiliano) ed è pronto a fargli da spalla come candidato a vicepresidente. Ha poi gioco facile nel proiettarsi internazionalmente come l’anti Bolsonaro; è stato accolto positivamente in Germania, Francia, Spagna, Argentina e, ora, Messico. Dopo aver fatto dei vistosi passi falsi, come quando ha provato a difendere il regime di Daniel Ortega in Nicaragua, ha deciso saggiamente di correggere il tiro ed evita ora di sbilanciarsi sui suoi legami con il Venezuela o Cuba.
Bolsonaro, invece, tira dritto per la sua strada e parla sempre e solo a quello zoccolo duro che ancora lo segue, nonostante la disastrosa gestione della pandemia e la non brillante conduzione della crisi economica in corso. Il presidente spera che il ricorso ai suoi cavalli di battaglia storici (la lotta alla corruzione e l’opposizione al PT e alla sinistra) basti per farlo vincere in un secondo turno contro Lula. E non sembra preoccuparsi del vistoso calo di consensi: stando ai sondaggi ormai meno di un terzo dei brasiliani approva la linea Bolsonaro. Sta perdendo terreno soprattutto tra i ceti meno abbienti che più soffrono le conseguenze della recessione e dell’inflazione, che ormai ha superato il 10% su base annua. Guarda essenzialmente ai parlamentari del “Centrao”, il grande centro che domina il legislativo e a cui ha concesso spazi nell’esecutivo e diverse prebende, attraverso fondi speciali a deputati e senatori. Solo il tempo saprà dire quanto questi legami di convenienza si tramuteranno in calamite di voti a suo favore, ma è chiaro che oggi anche parte del mondo economico e dell’elettorato moderato si è allontanato dalle posizioni più estreme di Bolsonaro, a differenza della situazione negli USA, dove Donald Trump può contare ancora su una base di appoggio forte nell’elettorato americano, pur lontano dalla Casa Bianca. Bolsonaro appare come logorato dall’agire quotidiano come capo di Stato e di governo, mentre vengono alla luce le contraddizioni tra il suo discorso più radicale e la congiuntura economica.
I mercati, intanto, sembrano aver perso le speranze in un’ipotetica terza via. Né la candidatura di Joao Doria né quella di Sergio Moro sembrano, per ora, sedurre il voto moderato. Troppo debole e “paulista” (San Paolo) il primo, troppo divisivo e inviso agli estremi il secondo. L’unica chance sarebbe quella di un’ulteriore débâcle di Bolsonaro, ma al momento sembra che la base dei suoi irriducibili resti compatta. Ad ottobre due settori specifici di elettori saranno, ancora una volta, determinanti; gli elettori del Nordest, attratti dal revival di Lula e l’importante fetta di votanti evangelici, sui quali si sta giocando una battaglia nella battaglia. Se Bolsonaro continua ad essere il preferito dai leader delle principali chiese evangeliche, Lula sta facendo una campagna dal basso e sui social diretta alla base della piramide, ricordando soprattutto ai fedeli meno abbienti i tempi della crescita economica di 15 anni fa. L’effetto amarcord, “con me stavate meglio”, è l’asse centrale della sua campagna tra i più poveri, ma nel ceto medio sembra pesare l’assenza totale di autocritica rispetto agli errori e ai delitti di corruzione commessi dal suo partito. Forte delle sue ripetute assoluzioni, l’ex presidente nasconde sotto il tappeto gli scandali che hanno segnato i suoi governi e quello della sua delfina Dilma Rousseff, ma quando la campagna elettorale entrerà nel vivo si parlerà molto anche di questo.
I principali analisti concordano sul fatto che se l’economia non decollerà Lula avrà vita facile, mentre se ci sarà una pur timida ripresa, Bolsonaro potrà sperare in un clamoroso capovolgimento. Sarà, questo è sicuro, una campagna senza esclusioni di colpi, giocata più in rete che a Brasilia e dove a spostare i voti saranno gli amministratori e politici locali, più che i leader di partito. Sembra infatti difficile arginare la macchina di fake news e di trolls sui social media in un Paese molto più digitale rispetto alla media delle nazioni europee, Italia compresa.
Foto in copertina di Alos Santos/PR, usata su licenza CC 2