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Commentary
Brexit: gli effetti del "no deal" sull'Italia
Antonio Villafranca
12 Dicembre 2018

In un periodo in cui i rapporti tra Roma e Bruxelles sono sempre piú nel segno delle tensioni e delle contrapposizioni, Brexit rappresenta una eccezione. Il cambio di governo in Italia non ha modificato la posizione del nostro paese sul tema, contribuendo così a una non scontata unità dell’Ue nel negoziato con la Gran Bretagna. Il risultato è stato il Consiglio europeo dello scorso 25 novembre che con una seduta record di appena 30 minuti ha dato il proprio via libera all’accordo chiuso dal capo negoziatore da parte europea, Michel Barnier, a nome dei rimanenti 27 paesi membri. Una prova di unità quindi da parte dell’Ue che ha dato i suoi frutti: l’accordo chiuso con il governo May è schiacciato decisamente di più sulle posizioni europee che su quelle britanniche.

Questa sostanziale linea di continuità tra l’Italia e le posizioni di Bruxelles su Brexit generalmente viene ricondotta alla constatazione che Brexit non avrebbe comunque un grosso impatto sull’Italia e che quindi conta solo fino a un certo punto in termini di interesse nazionale. Non rientra quindi tra i temi più caldi e dirimenti per il governo e per il paese in generale. Eppure le cose non stanno esattamente in questi termini.

Il legame che unisce Italia e Gran Bretagna nell’ambito del comune (almeno finora) contesto dell’Unione è più stretto di quanto possa sembrare all’apparenza. A contribuire all’affermazione che in fondo Brexit non potrà sortire grandi effetti sull’Italia sta il fatto che verso Londra vengono indirizzate in fondo ‘solo’ il 5% circa delle nostre esportazioni nel mondo, e che quindi anche l’impatto di una ‘hard Brexit’ (ovvero un Brexit senza accordo finale) non potrebbe sconvolgere il nostro interscambio con l’estero. Ma si tratta di un dato che merita maggiore attenzione.

Anzitutto, grazie a questo 5% la Gran Bretagna si posiziona al quarto posto, a pari merito con la Spagna, tra i mercati di destinazione del nostro export dopo Germania, Francia e Usa (che insieme raccolgono oltre il 35% dell’export italiano). Inoltre, il dato percentuale può raccontare una storia diversa se lo si legge in termini di valore in euro. Il 5% di un totale di beni esportati pari a 450 miliardi nel 2017 si traduce in circa 23 miliardi di euro. Se si considera che il nostro import da Londra ammonta a circa 12 miliardi, emerge un avanzo commerciale di 11 miliardi. Una cifra tutt’altro che irrisoria. Certo si potrebbe a ragione sostenere che non bisogna esagerare sugli effetti di Brexit perché anche nell’ipotesi in cui non si giungesse a un accordo tra Ue e Gran Bretagna entro marzo, i 23 miliardi di export non andrebbero totalmente in fumo. Ma subirebbero comunque un contraccolpo non indifferente. Per comprenderlo basti ricordare che a inizio 2016 ci si attendeva un aumento dell’export italiano verso la Gran Bretagna di circa il 5-6%. Dopo il referendum di giugno 2016 che ha visto prevalere il ‘leave’ sul ‘remain’ la percentuale si è fermata sullo 0%, per poi raggiungere il 3% solo nel 2017. Un anno, quest’ultimo, in cui però si è registrato un boom delle nostre esportazioni nel mondo, con un incremento di oltre il 7%. Il rallentamento dell’economia britannica e la debolezza della sterlina hanno quindi avuto un impatto significativo.

Inoltre val la pena disaggregare l’effetto del potenziale calo delle nostre esportazioni verso Londra a livello settoriale, visto che per circa il 40% di queste sono concentrate in alcuni settori quali la meccanica strumentale, i mezzi di trasporto e l’agroalimentare. Gli effetti su questi settori sarebbero dunque proporzionalmente più rilevanti che in altri, tanto più se Brexit avvenisse senza un accordo finale. In questo caso peraltro si applicherebbero i dazi previsti dall’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) che, secondo stime della Banca d’Italia, si tradurrebbero in dazi medi del 5% sul nostro export verso Londra, che sarebbero vicini o addirittura superiori al 10% per alcuni settori (tessile e abbigliamento, agroalimentare e automotive).

Anche quando si guarda agli investimenti diretti esteri (Ide) si tende a sottovalutare l’effetto di un ‘hard Brexit’ sull’Italia. In effetti il nostro paese è destinatario di relativamente pochi Ide (il 18,7% del nostro Pil, contro il 46,7% della media Ue nel 2016), e quindi anche una riduzione di quelli dalla Gran Bretagna non dovrebbe sortire grossi effetti. Probabilmente sarebbe così, ma ancora una volta non necessariamente disaggregando i dati; si tratta infatti di investimenti con forte concentrazione a livello settoriale (manifatturiero, Ict e commercio all’ingrosso) e geografico, con alcune regioni – a partire dalla Lombardia, e dal milanese in particolare – che risulterebbero particolarmente colpiti.

Un ulteriore effetto negativo di Brexit sull’Italia potrebbe non essere legato all’ambito strettamente commerciale e degli Ide. A pesare in misura considerevole sulle finanze dello stato sarebbe infatti il probabile aumento dello spread. In un momento in cui il nostro differenziale sugli interessi è già molto alto, un elemento di ulteriore instabilità in Europa, soprattutto nel caso di ‘hard Brexit’, giocherebbe decisamente a sfavore dell’Italia.

Più in generale, l’uscita di Londra dall’Ue non è una buona notizia per l’Italia per motivi che vanno ben oltre l’aspetto meramente numerico. Ad esempio, più spesso di quanto non si creda, nei 45 anni della sua adesione all’Ue, Londra ha fatto sponda con Roma in chiave anti-asse Parigi-Berlino e ha favorito quell’attenzione alla competitività e alle liberalizzazioni che ha fatto decisamente bene al nostro paese. Per non parlare degli effetti di una Ue senza Londra in termini di politica estera e sicurezza dell’Unione.

Ciò che lega l’Italia al futuro della Gran Bretagna è ben più consistente di quanto in genere si pensi e di quanto i dati sembrano mostrare. Motivo in più perché il governo italiano contribuisca a mantenere l’unità dell’Ue nel prossimo Consiglio e negli ultimi mesi che precedono Brexit, ma dando il suo contributo perché le difficoltà – soprattutto da parte britannica – non si traducano il prossimo marzo in un ‘hard Brexit’ che non converrebbe a nessuno, Italia inclusa.

 

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Italia brexit Gran Bretagna
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EUROPA 2019

AUTORI

Antonio Villafranca
Coordinatore della ricerca, ISPI

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