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Commentary

Brexit e le fratture del Regno Unito

Leonardo Maisano
11 aprile 2019

L’infinita epica della Brexit lascia un segno che andrà molto oltre il 31 ottobre 2019, la nuova data del divorzio anglo-europeo maturato al summit di Bruxelles. Da tre anni la vita politica ed economica del Regno Unito è paralizzata come mai prima d’ora: il dibattito è solo sull’incerto destino europeo del Paese, le misure economiche adottate sono distillate attraverso la lente dell’eventuale separazione, le riforme strutturali (anche Londra ne ha bisogno) restano in attesa. C’è spazio solo per l’ordinaria amministrazione in un’amministrazione (pubblica) che è stata distratta dal lavoro corrente per focalizzarsi sui molteplici scenari di una Brexit ancora indefinita. Il contesto macro del Paese tiene assai meglio del previsto ma, paradossalmente, è un elemento che complica non semplifica le cose. Il morso della Brexit non si sente ancora. I valori degli immobili – pietra angolare di un’economia che si regge sui consumi interni finanziati dall’indebitamento privato sostenuto da case per decenni in costante aumento di prezzo – battono in testa soprattutto nella capitale, ma l’occupazione resta piena e i negozi anche.

Proprio il decalage fra voto ed effetto del voto è una delle cause della relativa tenuta del sostegno popolare per la Brexit. Sostegno che è in netto calo rispetto a prima, ormai probabilmente minoritario nel Paese, ma non è affatto crollato. E non crollerà fino a quando le conseguenze economiche non saranno state davvero avvertite. Ci vorrà ancora un po’, non troppo, crediamo. Le chiusure delle linee di produzione nel nord dell’Inghilterra dove la Brexit aveva sorprendentemente avuto successo si faranno sentire. Lo stesso accadrà nell’indotto dei servizi finanziari destinati a subire, comunque, una contrazione perché il perimetro delle attività si restringe.

In attesa che tutto ciò si concretizzi in dati economici reali resta l’immagine di un Paese spaccato, ma non (ancora) dilaniato quanto il partito che lo guida. Il nuovo slittamento deciso a Bruxelles accrescerà la spinta interna al partito per liquidare Theresa May, svelando la realtà di conservatori sul ciglio di una scissione di fatto già avvenuta, ma in pratica sostanzialmente irrealizzabile pena la dissoluzione. Dove vanno gli eventuali scissionisti “ultrabrexiters”? Gli eurofobi conservatori sono tenuti insieme più dall’odio verso l’Ue che dalla condivisione di una politica comune: il liberista Boris Johnson non è necessariamente allineato al conservatorismo paternalista di altri fondamentalisti dell’”indipendentismo” inglese. E questo non è un buon inizio per un’ipotetica, nuova formazione politica nata dallo scisma Tory. 

A tenere in vita i conservatori per ora provvede il partito laburista: la prospettiva di consegnare la guida del Regno al Labour radicalizzato di Jeremy Corbyn garantisce al Tory party quell’ossigeno che altrimenti non avrebbero più da un pezzo. Ma quanto può durare una situazione del genere? Non a lungo. Ecco perché la Brexit potrebbe davvero mutare la geografia politica del Regno creando una contrapposizione non più ideologica nel senso tradizionale. Non più una destra e una sinistra schierati in un Parlamento che è disegnato per mimare un combattimento – gli uni di fronte e contro gli altri – ma europeisti e non. La faglia fra chi immagina e continuerà a immaginare per Londra un futuro nell’Unione e chi la esclude è il fronte della politica britannica destinato a restare anche dopo la Brexit, in qualunque modo la Brexit si concluderà.

Il rimpasto della politica del Regno andrà così e i prodromi si vedono già con il Brexit party di Nigel Farage che minaccia di succhiare enorme consenso ai conservatori e la nascita del piccolo gruppo Indipendent-Change Uk composto da transfughi Tory e Labour. Eurofili che occhieggiano ai LibDem, che flirtano con i valori unionisti – in chiave europea – dei nazionalisti scozzesi. È solo il sintomo di un fenomeno destinato ad ampliarsi. Con quanta rapidità riuscirà ad espandersi lo sapremo dopo il 23 maggio se Londra davvero parteciperà ad elezioni non a caso temutissime da conservatori e laburisti.

Un fenomeno largamente generazionale che diverrà carsico, emergendo e affondando nella storia politica prossima ventura del Regno Unito. Non può bastare un referendum finito 48 a 52 per cancellare quattro e più decenni di partecipazione all’Ue, entrati nella pelle di tanti giovani britannici, figli della condivisione dei valori europei e non più prodotto delle nostalgie post-imperiali. Avanguardie avvertite, si obietterà. Certamente sì, ma anche questo è un elemento della costruzione  dell’Unione. E in questo Londra è e resterà europea.

A condannare il regno di Elisabetta a un permanente conflitto sulla sua natura e il suo destino non è solo la frattura nei numeri globali del Paese, ma anche la forma della frattura. La Scozia, l’Irlanda del nord e – prima o poi – anche l’euroscettico Galles si rivolteranno alla “dittatura” inglese, alleandosi alla capitale che dall’Ue più ha avuto e – dopo la Brexit – più perderà. Quando il divorzio sarà completato – se mai lo sarà – il conflitto sul posizionamento del Paese nel mondo proseguirà contrapponendo vicini di casa e popoli del regno, più – assai più – che conservatori a laburisti. Un conflitto permanente: sarà questa l’eredità della Brexit. Il rinvio deciso a Bruxelles offre la possibilità di un ripensamento, ma non muta il contrasto insanabile fra eurofili e eurofobi. E, temiamo, non si ricomporrà più, imponendo alla separazione anglo-europea un prezzo, per Londra, molto più alto di quanto immaginato fino ad ora.

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ISPI Senior Advisor

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AUTORI

Leonardo Maisano
Commentatore, Il Sole 24 Ore

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