A pochi giorni dall’attentato a Westminster e dalle celebrazioni dei 60 anni dei Trattati, l’Unione europea che abbiamo conosciuto sinora rischia di non esistere più. Infatti, Londra consegna oggi la notifica a Bruxelles per avviare i negoziati che la porteranno fuori dall’Ue. Anzi, nelle intenzioni della premier Theresa May, la porteranno anche fuori dal Mercato Unico, con la conseguenza di dover riscrivere ex novo i rapporti con l’Unione. Questo è il punto di partenza che sembra far chiarezza sulle prospettive negoziali ma che in realtà lascia aperte molte incognite: su quali cardini si baserà il futuro rapporto tra Ue e Regno Unito? Quali le strategie possibili per le negoziazioni? Quale la posizione ufficiale di Bruxelles? Quali i pericoli per l’unità del Regno Unito? C’è il rischio di altri "exit" nell’Ue? Al momento la voce che si è sentita maggiormente è quella di Londra che con un White Paper ha comunicato i suoi desiderata. Rimane da vedere se e fino a che punto l’Ue saprà mostrarsi unita nelle negoziazioni o mostrerà il fianco a una possibile strategia britannica del divide et impera.
Il tema della Brexit verrà affrontato il 3 aprile nella conferenza "Brexit: cosa cambierà?". Inoltre, per contribuire al dibattito sul futuro dell’Ue, l’ISPI ha recentemente pubblicato i risultati del sondaggio ISPI–RaiNews "Gli italiani e l’Ue" e il Paper "Europe 2017: Make It or Break it?".
Infatti, la notifica britannica non è che il primo passo di un percorso formale complesso.
Una volta ricevuta la notifica, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk dovrà inviare una proposta di posizione negoziale alle cancellerie dei 27 stati membri. I negoziati potranno quindi iniziare soltanto quando il Consiglio europeo a 27 prenderà formalmente atto delle intenzioni del Regno Unito, nella seduta già convocata per il 29 aprile. In quell’incontro, i 27 dovranno trovare un accordo unanime su ciascuno dei singoli punti della posizione negoziale dell’Ue; un passaggio non necessariamente scontato visto l’attuale stato delle relazioni tra i paesi europei.
Se formalmente i negoziati dovrebbero durare 24 mesi, le parti avranno in realtà solo circa 18 mesi per negoziare un accordo con il Regno Unito, per poi sottoporre la proposta al Consiglio europeo, al Parlamento europeo e a quello britannico per la discussione e la ratifica.
Va ricordato che il limite di due anni per negoziare i nuovi rapporti tra Ue e Uk è contenuto nell’articolo 50 dei Trattati, che stabilisce che tale scadenza può essere prorogata solo all’unanimità. La conseguenza è ovvia: anche un piccolo stato può minacciare Londra di opporre il veto alla proroga se alcune sue richieste (ad esempio riguardo alla mobilità dei propri lavoratori) non fossero accettate. Da notare inoltre che il voto in seno al Consiglio sull’accordo finale non necessita invece dell’unanimità, ma di una supermaggioranza qualificata. In questo caso risulterà più difficile che pochi paesi possano bloccare l’accordo, nel caso per esempio in cui avessero ricevuto promesse di trattamento favorevole da parte di Londra.
Difficile che un’opzione à la carte come questa possa essere accettata dall’Unione europea. Ciò potrebbe peraltro convincere altri paesi membri ad avanzare richieste simili. In ogni caso, al momento quella che si è sentita è, quasi esclusivamente, la voce di Londra. Per ascoltare la voce europea si dovrà attendere la pubblicazione della posizione negoziale ufficiale dell’Ue. Ad influire sull’esito del negoziato saranno poi eventi chiave come le elezioni in Germania, Francia e Italia.
L’impressione è che l’esito della Brexit, più che dalle negoziazioni tra Londra e Bruxelles, dipenderà da quale Unione europea, e con quali velocità, verrà costruita nei prossimi due anni.
Riguardo a ciò, se Bruxelles non dovesse permettere agli operatori britannici di esercitare all’interno dell’Unione, è da chiarire dove andranno a ricollocarsi tutti quegli operatori finanziari che avevano scelto Londra come loro sede all’interno del Mercato Unico.
Varie città europee — tra cui Milano — si sono dette pronte a sostituirsi a Londra. Se questa dovesse perdere il passaporto finanziario, alcuni servizi precedentemente erogati dalla City potrebbero in effetti spostarsi in altre città europee. Ma, data la natura globale dei mercati finanziari, è altresì possibile che a beneficiarne possano essere anche piazze extra–Ue, da New York a Shanghai. Si tratterebbe di una perdita tanto per Londra quanto per l’Ue.
Infine non va dimenticato che spesso la Gran Bretagna si è prodigata nelle istituzioni comunitarie per favorire posizioni liberiste e la semplificazione delle norme europee. Stimoli di cui si potrebbe sentire la mancanza nell’Ue del futuro.
Dubbi maggiori riguardano invece gli altri 200.000 cittadini europei che non risiedono stabilmente nel Regno Unito. Si tratta, in particolare, di 120.000 cittadini che cercano attualmente lavoro nel Regno Unito, cui si aggiungono 51.000 lavoratori distaccati da aziende con sede in altri Stati membri, e altre 27.000 persone che — soprattutto per motivi di lavoro — ogni giorno attraversano la frontiera tra Irlanda e Irlanda del Nord.
Per tutti costoro il futuro è incerto, e il loro diritto di permanenza sul territorio britannico dipenderà strettamente dall’esito del negoziato tra Londra e Bruxelles.
Quel che è certo è che con la Brexit l’Ue perderà uno dei suoi due paesi con arsenale nucleare, oltre che un membro permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed il paese che da anni spende di più nel settore della difesa.
Inoltre, dal canto suo, il Regno Unito rischia di ritrovarsi schiacciato, e con pochi margini di manovra, in un’epoca in cui sembrano dominare grandi blocchi e alleanze.
Anche l’idea di rilanciare la relazione speciale con gli Stati Uniti e il Commonwealth appare irrealistica. È probabile, invece, che questo genere di alleanze, frutto del secolo scorso, oggi non possano esercitare più l’influenza di un tempo e non facciano che frammentare lo sforzo britannico di accrescere il proprio ruolo nello scacchiere internazionale.
Sul primo fronte, il governo conservatore di Theresa May gode oggi di grandi spazi di manovra a causa della duplice crisi, sulla sua sinistra dei laburisti guidati da Jeremy Corbyn, e sulla sua destra del Partito per l’indipendenza (UKIP). Al suo interno, tuttavia, i conservatori sono divisi tra chi è da sempre a favore della Brexit, e chi invece avrebbe voluto restare e si trova oggi a dover negoziare con l’Europa. Inoltre, imperversano le polemiche sulla transizione che ha portato Theresa May a succedere a David Cameron senza un passaggio elettorale.
Sul versante delle amministrazioni decentrate, va ricordato che nel 2014 il 55% degli scozzesi si era schierato a favore della propria permanenza all’interno del Regno Unito, ma che nel 2016 il 62% aveva votato per restare nell’Ue. Nicola Sturgeon, leader dello Scottish National Party ha mostrato la chiara intenzione di indire un secondo referendum sull’indipendenza scozzese. Ai sensi dello Scotland Act – che regola i rapporti tra l’Inghilterra e la Scozia – un nuovo referendum può essere però concesso a Edimburgo solo se, dopo l’approvazione del Parlamento scozzese (avvenuta ieri), la mozione è approvata anche dalla Camera dei Lord e da quella dei Comuni a Londra. Infine il tutto dovrà essere presentato alla Regina, cui spetta formalmente l’ultima parola. Il Parlamento di Westminster potrebbe quindi bloccare la richiesta scozzese ma avviando uno scontro politico senza precedenti.
Da tenere in considerazione anche la situazione nell’Irlanda del Nord, dove una grave crisi politica ha portato a elezioni lo scorso 2 marzo con il risultato di confermare lo stallo tra i principali partiti. Stallo che potrebbe addirittura riportare il paese alle urne nel mese di maggio. In questa fragile situazione politica, gli unionisti nordirlandesi (pro–Londra) temono che Brexit risvegli i nazionalisti, rimettendo in discussione gli Accordi del Venerdì Santo del 1998