Nell’infinita storia (o dramma) di Brexit le scadenze si susseguono senza sosta. L’uscita formale del Regno Unito dall’UE lo scorso gennaio è solo in parte sostanziale perché il periodo di transizione continuerà fino a fine anno. Nel frattempo a giugno è scaduto il termine entro il quale Londra avrebbe potuto chiedere una estensione del periodo di transizione. Il premier Johnson non ne ha proprio voluto sapere auspicando un accordo di massima con Bruxelles per luglio. Altra scadenza, altro rinvio inevitabile: le negoziazioni sono ancora in alto mare. In realtà, alcuni passi avanti sui rapporti che legheranno UK e UE sono stati fatti, ma rimangono alcuni punti cruciali su cui le parti sono ancora molto distanti.
Si guarda quindi alle prossime scadenze. La prima il 17 agosto quando verrà avviato un nuovo round negoziale, per il quale è però difficile attendersi un qualche risultato utile. Più probabile che il tutto si velocizzi, nel bene o nel male, nel corso di settembre/ottobre, mentre dicembre è sempre più dietro l’angolo con il suo carico di incertezze (e possibile caos) nel caso non si raggiungesse alcun accordo. Si tratta di uno scenario tanto negativo per entrambe le parti (soprattutto perché si sommerebbe a quello del COVID-19) quanto concreto perché i temi che dividono UK e UE rappresentano per entrambi delle red lines. Vediamo di cosa si tratta e quali sono le possibili evoluzioni.
Come andare a pesca…
C’è un tema ricorrente nella retorica dei conservatori britannici e dello stesso Boris Johnson: l’ingiustizia nei rapporti con l’UE sulla pesca. Non che la cosa sia di vitale importanza per l’economia britannica, visto che la pesca pesa per un marginalissimo 0,12% nel suo Pil, ma è un tema diventato politicamente molto sensibile e sul quale Johnson sa di giocarsi la faccia con i suoi elettori. Limitare fortemente la pesca nelle proprie acque territoriali da parte soprattutto di Francia, Belgio, Danimarca e Germania è stato infatti un cavallo di battaglia dei conservatori su Brexit e a nulla finora sono servite le rimostranze europee che ricordano a Londra che la pesca nelle acque britanniche è vecchia di centinaia di anni.
Quando Londra era dentro l’UE l’accordo prevedeva il reciproco ingresso dei pescherecci nelle rispettive acque territoriali, anche se in effetti è sempre stato sbilanciato: i pescherecci europei pescano nelle acque britanniche otto volte tanto quanto facciano quelli britannici nelle acque europee. Rimane comunque il dato di fatto che il 75% del pesce pescato dai pescherecci britannici viene rivenduto agli europei perché Londra non ha un settore sufficientemente grande per la sua lavorazione e perché, ancora più semplicemente, non consuma tutto questo pesce. Alla fine un compromesso sul tema può essere trovato proprio per l’importanza dello zero virgola del settore per l’economia europea e britannica e perché si può ricorrere a delle quote, magari con un periodo di phase in. Una soluzione che permetterebbe a Johnson di portare a casa qualcosa da vendere ai suoi elettori e all’UE di non mettere i suoi pescatori sul piede di guerra magari compensando le perdite con aiuti europei.
Insomma a ben vedere, e malgrado l’apparente ferrea resistenza da ambo le parti, la negoziazione sulla pesca appare come strumentalmente utile a ottenere altro su dossier ben più importanti. Una sorta di merce da ‘barattare’. Ma Johnson sbaglierebbe se pensasse che possa farlo con la merce più preziosa per l’UE: il mercato unico.
…e come andare al Mercato
Il premier britannico Johnson ha chiarito da tempo che non intende restare nel Mercato Unito - garantendo quindi le sue libertà fondamentali di circolazione di merci, servizi, persone e capitali – e nemmeno in una unione doganale che non gli permetterebbe di avere le mani libere (almeno sulla carta) nel siglare accordi commerciali col resto del mondo. Punta invece a un ambizioso accordo di libero scambio a tariffa e quota zero. Ma Bruxelles punta i piedi: l’ingresso nel più grande mercato unico del mondo può avvenire solo a precise condizioni. Tra queste la più importante riguarda il ‘level playing field’. In pratica l’UE intende impedire che il Regno Unito possa fare concorrenza sleale in futuro con un quadro regolatorio meno stringente di quello europeo in vari campi: da quello ambientale a quello del lavoro, da quello dei controlli fito-sanitari fino agli aiuti di Stato.
Proprio sugli aiuti di Stato, come sottolineato lo scorso 23 luglio dal capo negoziatore europeo Michel Barnier, lo scontro tra le parti sta diventando sempre più aspro. Si tratta peraltro di un tema particolarmente sensibile al tempo del coronavirus, visto che ciascuno Stato europeo sta facendo grande uso di queste misure per sostenere le proprie aziende in deroga – ma solo temporanea e sotto stretto controllo della Commissione UE – alle rigorose regole europee.
Le trattative sono bloccate anche perché al riguardo la confusione sembra regnare sovrana oltre Manica. Per Londra c’è in gioco non solo il futuro rapporto con Bruxelles, ma anche quello con le devolved administrations ovvero con le autorità, oltre quelle prettamente inglesi, del Galles, della Scozia e dell’Irlanda del Nord. In pratica si tratta di capire se una questione come quella degli aiuti di Stato rappresenti una reserved matter di cui solo il governo britannico può disporre o se possa essere ‘devoluta’ anche alle autorità locali. I conservatori di Johnson ovviamente non hanno dubbi e sono certi della prima interpretazione, con i più ferventi Brexiters (come Dominic Cummings, senior advisor del primo ministro) propensi per un regime regolatorio che sia nazionale e piuttosto ‘morbido’ in quanto basato solo su alcuni principi amministrativi al posto di un indipendent regulator come prevedeva Theresa May pensando di lasciar operare al riguardo la Competition & Market Authority. È una posizione che non manca di preoccupare Bruxelles che chiede invece a gran voce regole chiare, imparziali e cogenti.
L’idea di un regime nazionale con regole che possono essere cambiate a proprio piacimento dal governo britannico sta facendo infuriare le devolved administrations, a iniziare dagli scozzesi. A poco al momento sono servite le rassicurazioni, invero piuttosto generiche, fornite dal governo secondo cui “la regolamentazione sugli aiuti è una reserved matter. Le devolved administrations avranno comunque responsabilità sulle decisioni di spesa sui sussidi (quanto, a chi e per cosa) all’interno dei piani nazionali di sussidi e di aiuti di Stato”.
La questione per il governo di Johnson rimane quindi aperta sia sul fronte delle negoziazioni con Bruxelles sia su quello interno. Rispetto in particolare a Bruxelles, il governo britannico continua a sostenere che l’UE non può chiedere a Londra più di quanto abbia già fatto nel caso di recenti accordi di libero scambio dell’UE stessa. Viene spesso richiamato al riguardo soprattutto il Comprehensive and Economic Trade Agreement (CETA) con il Canada. Si sottolinea che questo non richiede l’adozione delle regole europee sugli aiuti di Stato ma un meccanismo basato sulla trasparenza e su fori in cui discutere di eventuali misure considerate lesive della concorrenza (oltre ovviamente a quanto previsto nell’ambito del WTO). Si propone anche un meccanismo di notifica biennale di tutti gli aiuti concessi simile a quello negoziato dall’UE nell’ambito dello EU-Japan Economic Partnership Agreement (EPA).
Più in generale sul tema del level playing field, secondo Londra, non c’è spazio per una intromissione da parte della Corte di Giustizia europea sulla regolamentazione che verrà adottata dal Regno Unito, il quale comunque si impegna a non ridurre gli standard precedenti (su lavoro e ambiente) per ottenere vantaggi competitivi. In pratica nessuna delle parti potrebbe avere un livello di regolamentazione meno stringente rispetto a quello vigente alla fine del periodo transitorio. Un meccanismo di dialogo e consultazioni, anche con una revisione fatta da un expert panel, dovrebbe dirimere eventuali controversie future.
Questa dunque la posizione del governo britannico che si richiama, appunto, agli stessi accordi di libero scambio dell’Ue. Una posizione che non piace per nulla a Bruxelles che esclude che il livello di prossimità e di integrazione dell’economia europea con quella britannica possa essere paragonata a quello con il Canada o con il Giappone. In altri termini, l’effetto di eventuali misure britanniche distorsive della concorrenza sarebbe decisamente superiore.
Insomma Brexit non può andare in vacanza perché le distanze sono ancora notevoli e perché il tempo a disposizione ormai sta per scadere. La ricerca di un compromesso deve essere un costante impegno per entrambe le parti. Un no deal non converrebbe agli europei, e ancor meno ai britannici. Tanto più nel bel mezzo di una recessione senza precedenti come quella legata al coronavirus.