Un attentato al mese (o quasi) fino al giorno del voto. La Gran Bretagna arriva alle elezioni anticipate indette nel segno della Brexit devastata dall’escalation del terrore in una campagna dirottata, nei giorni finali, dall’emergenza sicurezza che assai poco spazio ha lasciato ai temi di fondo del negoziato euro-britannico. Non abbiamo sentito dire quali formule i partiti intendano applicare per gestire una trattativa di straordinaria complessità e di straordinaria importanza strategica. Ha dominato il tatticismo, hanno prevalso le scorciatoie fatte di slogan elettoralistici che impongono ai cittadini atti di fede nei confronti di partiti e candidati. Anche per questo la signora premier Theresa May arriva zoppicando al voto afflitta, com’è, da debole credibilità, tuttavia sorretta dalle stampelle di sondaggi che assegnano al Tory party al governo un vantaggio oscillante fra il 3 e il 9 per cento. Una frazione, in qualunque caso, rispetto al 20-25 percento assegnato alla premier in aprile, quando annunciò elezioni anticipate.
La Brexit, sia chiaro, ha invaso i pubblici appelli, è emersa in ogni paragrafo dei manifesti politici delle forze in campo, ma la sostanza vera di un dibattito che si risolverà nei dettagli è stata attentamente scansata. Per timore di esporsi con promesse insostenibili e per scarsa conoscenza di una missione che vede Londra sempre meno preparata verso la meta. Eppure dopo il Grande Divorzio nulla potrà essere come prima. Dall’economia, alla pubblica istruzione, dalla sanità, alla sicurezza fino all’immigrazione, ogni piega della vita pubblica dovrà essere declinata con lo scenario del mondo che verrà.
Il quesito per gli elettori che guardano alla Brexit resta, quindi, relativamente semplice, se alleggerito – lo ripetiamo – dall’interrogativo riemerso sulla sicurezza nazionale: chi è il miglior leader per negoziare con “successo” a Bruxelles? La ex remainer rinata hard brexiter Theresa May o Jeremy Corbyn, il volto più radicale che abbia mai avuto il Labour party da Michael Foot ad oggi? Le previsioni, da tutti condivise tre settimane fa, indicavano una netta inclinazione popolare per May; l’evoluzione della campagna elettorale suggerisce Corbyn, quantomeno per la rincorsa che ha saputo mettere in campo. Il motivo non va ricercato tanto nel programma anni Settanta – dalle nazionalizzazioni a un’elevata tassazione per le imprese – quanto in quell’aura di authenticity di cui si lo shadow premier si sa ammantare, suscitando simpatia in una società divisa dalle disuguaglianze come nessun’altra in Europa. La forma non può cancellare la sostanza che nel caso di Corbyn è il ritorno dell’ideologia in una società dominata da decenni da un neo centrismo pervasivo, dove lo formule thatcheriane hanno trovato sostanziale consequenzialità in quelle blairiane.
Theresa May contrappone un Tory Party di marca sociale per recuperare l’elettorato di sinistra deluso dal radicalismo di Jeremy Corbyn, rischiando, tuttavia, di irritare l’ala più liberista del partito. Una svolta che impone determinazione, che impone “palle” come la premier stessa ha rivendicato a se stessa con una scivolata di stile messa in atto per apparire vagamente più rilassata. E qui siamo alla forma più che alla sostanza. La signora di Downing street ha svelato assoluta incapacità di occupare il palco della rappresentazione politica, ha svelato un’imbarazzante assenza di carisma ed empatia con gli elettori, s’è rivelata a tratti respingente. Un aspetto che, se declinato con le fughe in avanti e i repentini ripensamenti sul programma, è zavorra pesante per le spalle del capo del governo. Era remainer ora è hard brexiter, era contraria al voto anticipato e ha chiamato il Regno alle urne tre anni prima del previsto, era favorevole alla tassazione sui beni degli anziani (dementia tax) ora ne propone una versione dimezzata e via così. “Signora tentenna” al ritmo degli umori popolari, dunque, ma ben nascosta dietro il mantra – “nessun accordo con Bruxelles sulla Brexit è meglio di un cattivo accordo” – che sembra follia politica e diplomatica perché condannerebbe Londra a vivere in un pianeta senza regole. Jeremy Corbyn rovescia l’approccio: nessun accordo, riconosce, è il peggior “accordo” possibile. Tesi, questa almeno, assolutamente condivisibile.
Il voto dell’8 giugno – secondo gli ultimi rilevamenti – indica in Theresa May la debole favorita dal voto popolare. Nonostante le aspre polemiche sui tagli alle forze di polizia sanciti dalla premier quando era ministro degli interni, l’offensiva terroristica dovrebbe portarle maggiore consenso in quanto espressione di continuità politica, tradizionalmente preferita – nei momenti di crisi acuta – all’incertezza di un nuovo corso. Eppure l’ipotesi di un Parlamento senza maggioranza con le forze politiche tradizionali costrette a cercare acrobatiche coalizioni con gli eurofili LibDem e nazionalisti scozzesi, non è affatto da escludere. Uno scenario – l’unico immaginabile – che potrebbe di rimettere in discussione quella Brexit a cui Tory e Labour, nonostante le significative differenze, si sono arresi.
Leonardo Maisano, corrispondente da Londra de Il Sole 24 Ore