Sono molte le incognite che circondano la politica statunitense dopo l’elezione di Donald Trump, ma una cosa sembra essere oramai assodata: una delle più forti ossessioni di Trump è il rovesciamento dell’eredità obamiana, tanto in politica interna quanto in politica estera.
C’è un’area, in particolare, dove ciò è emerso in tutta la sua evidenza negli ultimi due mesi (anche se i semi sono rintracciabili già alla campagna elettorale): quella della politica statunitense in Medio Oriente.
Laddove la strategia di Obama era stata quella di scommettere sull’empowerment dell’esecutivo pragmatico iraniano a guida Rouhani per soddisfare finalmente la richiesta di Teheran di vedere riconosciuto il proprio peso regionale e dunque essere ammessa come interlocutrice alla pari nei negoziati per la risoluzione delle numerose crisi aperte nella regione, la strategia di Trump – se di strategia si può parlare – sembra essere invece quella di un ritorno ai due grandi alleati “classici” nella regione (Israele e Arabia Saudita) per provare a ricostruire un ordine mediorientale sempre più necessario per bloccare quel processo di disgregazione statuale da cui hanno origine fenomeni terroristici che arrivano a minacciare non solo la regione ma il mondo intero.
Non è un mistero che Riyadh e Tel Aviv non abbiano mai visto di buon occhio l’apertura obamiana all’Iran, non tanto per l’accordo nucleare del luglio 2015 (che anzi garantiva loro una maggiore sicurezza, eliminando per dieci anni la minaccia nucleare iraniana) quanto per i suoi effetti, vale a dire la riabilitazione dell’Iran e lo spazio aperto per un’espansione della sua influenza nella regione.
A ciò sembrano essersi aggiunte nelle ultime settimane le preoccupazioni derivanti dal fatto che – con lo Stato islamico in netto ritiro territoriale – ampie fasce di territorio precedentemente occupate dal movimento di al-Baghdadi stanno vedendo l’avanzata di movimenti paramilitari affiliati all’Iran. In particolare, la conquista del territorio che corre tra Iraq e Siria orientale permetterebbe all’Iran la creazione di un corridoio su cui esercitare influenza diretta. È il famoso asse Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut, che consentirebbe all’Iran di assicurare il continuo rifornimento di armamenti a Hezbollah (e dunque di mantenere la pressione su Israele) e di crearsi una sorta di “assicurazione” contro eventuali attacchi di natura convenzionale rivolti da potenze nemiche verso il proprio territorio. In un contesto mediorientale in cui la palma della superiorità per quanto riguarda gli armamenti spetta a Israele, seguito dall’Arabia Saudita, la strategia asimmetrica iraniana della “resistenza” mira a disincentivare attacchi convenzionali tramite la minaccia indiretta e permanente rappresentata dai suoi proxies presenti nei paesi della regione.
Non c’è da stupirsi se l’Arabia Saudita, principale nemico dell’Iran, guardi a tali evoluzioni con preoccupazione. La visita di Trump dello scorso maggio in Arabia Saudita e Israele sembra aver segnalato una chiara scelta di campo. Riyadh (e Tel Aviv) possono ora tornare a contare pienamente sullo storico alleato statunitense per avanzare la loro visione di ordine mediorientale, un ordine che non comprende l’Iran.
C’è però un problema: come dimostrato dall’affaire Qatar – scatenatosi non a caso nelle settimane successive alla visita di Trump a Riyadh – tale visione non sembra essere foriera di ordine ma di nuovo caos.
Nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della crisi, il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel aveva espresso la sua forte opposizione verso la scelta di campo di Trump, segnalando che tale scelta, oltre a essere “completamente sbagliata”, “non rispecchia la posizione della Germania” e rappresenta “una trumpizzazione del Medio Oriente”.
Sebbene Gabriel parlasse a nome del proprio paese, e non dell’Europa, il suo ragionamento è perfettamente traslabile a livello europeo, e dovrebbe dunque servire da sveglia per l’intera Unione. Nei fatti, anche l’Alto Rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini ha fatto appello ai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo perché risolvessero la crisi attraverso il dialogo, ricordando come ogni crisi politica debba in linea di principio essere risolta attorno a un tavolo, tramite negoziato. Un’implicita condanna all’approccio machista adottato da Riyadh e i suoi alleati consistente nell’invio di un ultimatum in tredici richieste al Qatar.
Su scala più ampia, questa crisi ci suggerisce che è in atto un allargamento tra le due sponde dell’Atlantico anche sull’approccio alla gestione del disordine mediorientale.
Se da un lato gli Stati Uniti di Trump pensano di ripartire dagli storici alleati, dando dunque via libera a una nuova emarginazione dell’Iran, dall’altro lato l’Unione europea ribadisce che per arrivare a una soluzione duratura alle gravi crisi regionali sia necessaria la presenza e il coinvolgimento di tutti gli attori coinvolti, Iran incluso. Tra queste due visioni opposte, è necessario tenere presente che l’interesse europeo – ma anche statunitense, e in definitiva globale – è quello della ricostruzione di un ordine regionale che permetta la ricostruzione di strutture statuali funzionanti, elemento necessario per la lotta contro qualsiasi forma di terrorismo e per il ritorno sicuro dei numerosi esuli che hanno dovuto abbandonare il proprio paese. All’opposto, ciò che si colloca agli antipodi rispetto all’interesse europeo e, ancora una volta, globale, è la creazione di nuove linee di faglia, che incentivano la conflittualità e rischiano di portare a ulteriori escalation che ritardano la ricerca di soluzioni alle crisi.
Se è vero che un approccio comune alla politica estera in sede europea rimane un’utopia, è altrettanto vero che i singoli paesi membri dovrebbero impegnarsi per far sì che il fragile progetto europeo improntato sulla scommessa del dialogo tra tutti gli attori regionali sopravviva e si imponga su quello a targa statunitense della scelta di campo e del via libera alle azioni punitive e ai regolamenti di conti.
È un anno cruciale per l’Europa sotto diversi aspetti: alcuni temuti appuntamenti elettorali sono passati e sembra scongiurato per ora il rischio – almeno a livello elettorale – dell’imposizione di movimenti sovranisti. Da questa serie di pericoli scampati Bruxelles sembra aver trovato quella spinta allo stare insieme di cui prima forse difettava. Non meno cruciale è l’aspetto della politica estera: dagli incendi mediorientali alimentati da settarismo e disgregazione degli stati derivano le principali minacce ai nostri paesi. Sebbene la risposta ad oggi sia stata ancora una volta scomposta e relegata a iniziative dei singoli stati, è tempo di comprendere che solo facendo blocco comune si può davvero aspirare a far sentire la propria voce sulla nostra idea di mondo e sulle soluzioni per rispondere a tali minacce.
Annalisa Perteghella, ISPI Research Fellow