In giro per l’Europa, ma anche alle sue porte, la secessione sta esercitando un fascino senza precedenti. Nel calderone delle secessioni c’è di tutto: dal Kosovo alla Scozia, dalle Fiandre all’Irlanda del Nord, e così via fino al Kurdistan e alla Catalogna. Ma se la semplificazione mediatica spinge ad accomunare tutte queste istanze, le differenze ci sono. E sono notevoli. Il primo criterio nel fare dei distinguo non può che essere la legalità, sotto il duplice aspetto della percorribilità costituzionale e della compatibilità con il diritto internazionale.
Di solito i casi che vengono più facilmente accumunati sono quello catalano e quello scozzese. Un paragone tanto immediato quanto inadeguato. Nel caso scozzese a regolare i rapporti tra Regno Unito e Scozia è lo Scotland Act del 1998. La sezione 30 dell’Act permette di derogare ai reserved matters (ovvero quei temi – come l’indipendenza – su cui il Parlamento scozzese non potrebbe decidere) attraverso un lungo percorso che parte dal Parlamento scozzese, passa attraverso l’approvazione della Camera dei Lord e di quella dei Comuni di Londra, per approdare infine sulla scrivania della Regina che ha l’ultima parola. Per quanto arzigogolato sia questo processo, il referendum è dunque legalmente previsto e gli scozzesi vi hanno già fatto ricorso nel 2014, non escludendo peraltro di riprovarci in caso di “hard Brexit”. Rimanendo ancora in Gran Bretagna, un po’ diversa è la questione dell’Irlanda del Nord. Secondo l’Accordo del Venerdì Santo del 1998, non si può indire un referendum secessionista (e di unificazione con l’Irlanda) se non lo richiede la maggioranza della popolazione nordirlandese. Si badi bene: di tutta la popolazione, non solo dei secessionisti.
Completamente diverso è invece il caso catalano, per il quale la Costituzione spagnola non prevede la possibilità di un referendum sull’indipendenza. Alcuni hanno evocato un principio tutelato dal diritto internazionale: l’autodeterminazione dei popoli. Secondo l’interpretazione più diffusa, tuttavia, i casi in cui vi si può fare ricorso sono solamente tre: popoli soggetti a dominio coloniale, popoli il cui territorio è stato occupato da uno Stato straniero e gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. Se nel caso del Kosovo e del Kurdistan – quest’ultimo ha svolto un referendum lo scorso 25 settembre – alcune di queste fattispecie sembrerebbero riscontrabili, è invece obiettivamente difficile farvi rientrare il caso catalano.
Ma oltre alla legalità – costituzionale ed internazionale – esiste anche una questione di opportunità politica ed economica delle istanze secessioniste. Anche in questi casi vale la pena di fare un po’ di chiarezza. Una Catalogna indipendente e repubblicana – come dichiarato dalla sua giunta esautorata lo scorso 27 ottobre – non sarebbe un paese membro dell’Ue, dell’Eurozona e del Mercato Unico e per rifarvi parte avrebbe bisogno del voto favorevole della Spagna. In sua mancanza, avrebbe il problema dei dazi alle esportazioni verso gli altri paesi europei, e dovrebbe decidere quale valuta adottare, con le banche catalane che non potrebbero più accedere alla liquidità fornita dalla Banca Centrale europea.
In pratica i costi dell’indipendenza per la Catalogna e per la Spagna sarebbero tutt’altro che irrilevanti. Ma i margini per accrescere l’autonomia della Catalogna ci sono, soprattutto sul piano fiscale. Inoltre, insieme a nuove elezioni, Rajoy dovrebbe avere il coraggio di aprire un percorso di riforma in senso federale dell’intera Spagna.
Nell’economia globale, continuare a dividersi aiuta solo gli altri paesi (uniti) del mondo. Ma valorizzare e rispettare di più i propri territori è una chiave per essere più forti a livello globale.
Antonio Villafranca, ISPI Research Coordinator, Co-head Europa e Governance globale
Questo articolo è stato pubblicato a p.69 dell'edizione di Formiche dell'1 novembre 2017.