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GLOBALIZZAZIONE
Catene del valore: Covid e nuove geografie
Stefano Riela
27 novembre 2020

È ancora presto per dire se e come le catene del valore si modificheranno a causa dello shock del Covid-19.  L’eterogeneità delle catene e discontinuità come la nuova Presidenza USA potrebbero rendere ardue analisi contro-fattuali. È tuttavia probabile una maggiore regionalizzazione delle catene del valore per via di un loro accorciamento e di una strategia di diversificazione favorita anche dagli accordi regionali di libero scambio.

 

Le catene della globalizzazione

Il “terrapiattismo” ha dominato l’economia internazionale nell’ultimo ventennio. Intricate catene del valore disegnate sulla geografia economica hanno causato e dimostrato l’appiattimento del mondo descritto da Thomas L. Friedman[1]. Gran parte di ciò che acquistiamo ha “qualcosa" – tra le diverse fasi che vanno dalla progettazione alla produzione fino alla vendita – di internazionale. Il 70% del commercio internazionale comporta scambi di materie prime, componenti, servizi per le imprese e beni strumentali, il tutto all'interno delle catene globali del valore (CGV). L’impatto è evidente tanto in prodotti complessi quali smartphone e automobili quanto in prodotti più semplici come una crema spalmabile “italiana" con ingredienti – quali cacao e olio di palma - non certo prodotti sull’italico suolo.

Se gli accordi di libero commercio bi/pluri/multilaterali hanno relegato la geografia politica a certificare l’origine in un contesto di tariffe in diminuzione, gli sviluppi tecnologici - soprattutto in materia di comunicazioni e trasporto - hanno ridotto i costi determinati dalla geografia fisica. 

In questo contesto, a frammentare la geografia del valore è stato il legittimo impulso imprenditoriale che ha guidato le multinazionali in cerca dell’efficienza offerta dai vantaggi comparati[2] di un numero crescente di Paesi e da modelli di produzione just-in-time capaci di ridurre la dimensione dei magazzini e l’entità degli oneri finanziari. Inoltre, una “mano invisibile”[3] capace di muoversi liberamente su scala internazionale ha permesso alle economie in via di sviluppo di ridurre il gap con le economie avanzate come dimostrato dal Pil pro capite in parità di potere d’acquisto (PPA) in Figura 1.

                                  

Figura 1 PIL pro capite in parità di potere d’acquisto 
(1990 = 100)

 Fonte: Fondo Monetario Internazionale, ottobre 2020

 

Il Covid-19 rimette le CGV in discussione

L’impatto della recente pandemia sull’attività economica è stato determinato dagli ovvi motivi sanitari ma anche dalle restrizioni adottate dai governi per limitare la crescita delle infezioni. Le CGV hanno pertanto subito interruzioni della produzione, trasporto di beni e mobilità del personale; e la dimensione del danno è stata proporzionale alla lunghezza delle catene e al numero di confini attraversati, facendo così ritornare rilevante l’accezione politica della geografia. 

Nel caso dei dispositivi di protezione individuale (DPI) - camici, guanti, mascherine e occhiali protettivi – un’impennata della domanda si è scontrata con un’insufficiente dotazione di scorte e produzioni domestiche. All’indisponibilità interna si è aggiunta la difficoltà a importare DPI dai pochi grandi produttori che si sono concentrati in Cina e nel Sud-Est asiatico dove, all’inizio della pandemia, ha prevalso legittimamente l’interesse alla salute dei propri cittadini vietando quindi l’export di DPI. Analoghi divieti sono stati adottati da altri Paesi con scorte disponibili, quali ad esempio Paesi europei che hanno vietato l’export di DPI verso altri membri dell’UE stessa.

Improvvisamente la pandemia ha svelato che il commercio internazionale è esposto al rischio di uno shock su scala mondiale con conseguenze più dannose rispetto a quelle dovute a fattori soggettivi (per esempio, l’imposizione di tariffe su basi giuridiche “peculiari”[4]) e oggettivi (per esempio terremoti e altri disastri naturali). Questo anche perché la globalizzazione ha rafforzato la specializzazione a livello di Paese, oltre nel settore dei DPI, anche in settori quali quello della telefonia mobile e dei computer (Figura 2); in altri settori quali l’aerospazio e l’automotive è accaduto il contrario poiché più Paesi hanno iniziato a partecipare alla catena del valore.

 

Figura 2  Variazione della concentrazione[5] dell’export mondiale 
(2000-2018)

Fonte: McKinsey Global Institute, 2020.

 

La concentrazione produttiva, oltre a sfruttare l’efficienza relativa iniziale, innesca effetti dinamici legati alle economie di scala e al crescente know-how con ricadute positive sull’innovazione. Il risultato è che il resto del mondo si è ritrovato vulnerabile in quanto fortemente dipendente da un export molto concentrato, in molti settori, in Cina. E soprattutto, dopo mesi di discussione su come il 5G e l’intelligenza artificiale in mano straniere possano essere un rischio per la sicurezza nazionale, si è scoperto che anche la disponibilità di prodotti di basso valore unitario, quali i DPI, ma essenziali per la salute pubblica, può giustificare l’abbandono dell’off-shoring, strumento principe delle CGV, per un re-shoring.

 

Verso catene più corte e più larghe

A pochi mesi dall’inizio della pandemia, non è possibile trarre delle conclusioni definitive su come le catene del valore si siano modificate a seguito dello shock, anche perché le elasticità di reazione sono funzione del disegno iniziale nella matrice prodotto/Paese. Per prodotti essenziali si è assistito a un ritorno a produzioni domestiche come nel caso o di termometri da parte della francese Stil Sas e di mascherine da parte dell’italiana Coccato e Mezzetti Srl, e molte sono state le dichiarazioni di soggetti pubblici volte a promuovere il re-shoring. Secondo alcuni nulla di significativo è cambiato e comunque, dopo lo shock iniziale, ceteris paribus, le CGV torneranno a essere quelle di prima, tenendo in considerazione gli eventuali sviluppi politici quali guerre o riappacificazioni tariffarie e accordi internazionali.

In realtà, già da prima delle politiche protezionistiche adottate dal Presidente USA Donald Trump, lo sviluppo delle CGV era in fase di rallentamento e, secondo McKinsey Global Institute, la pandemia ha semplicemente accelerato alcune delle tendenze già in atto. L’aumento del Pil pro capite delle economie in via di sviluppo che avevano attivamente partecipato alla globalizzazione (Figura 1), ha aumentato anche i salari lasciando alle multinazionali non molte opzioni di localizzazione con migliori combinazioni tra efficienza e sicurezza, intesa anche come stabilità politica. Inoltre, l’imporsi di fenomeni tecnologici come l’automazione e la robotica, l'intelligenza artificiale e la stampa 3D ha spostato l’ago della bilancia della competitività dalla manodopera a basso costo al capitale umano e alla difesa della proprietà intellettuale. Il rinnovato interesse per catene più corte e produzioni nelle economie avanzate è anche coerente con gli obiettivi di un’economia sostenibile grazie a una riduzione del trasporto e alla garanzia di standard ambientali più stringenti. 

Con il ritorno della geografia (o della tridimensionalità della terra, per riprendere la metafora di Friedman citata in apertura), si scopre che i Paesi non sono entità “anonime" nella grande rete del commercio globale. Anche in caso di pandemia, i Paesi vengono colpiti in fasi e con intensità diverse, reagiscono in maniera diversa, e la distanza geografica è rilevante in caso di discontinuità del trasporto. Le catene del valore potrebbero quindi allargarsi per contemplare un numero maggiore di fornitori appartenenti a diversi Paesi; una strategia di diversificazione del rischio che potrebbe accentuare la regionalizzazione delle catene come stava già avvenendo con il Messico e Vietnam nel pieno della guerra tariffaria tra USA e Cina.

 

Tra off-shoring e re-shoring, il near-shoring con le catene regionali

Sebbene la dimensione globale delle catene del valore abbia testimoniato il successo della liberalizzazione del commercio, si è consolidata in maniera più decisa la dimensione regionale basata su tre poli produttivi comunque interconnessi: uno centrato sugli Stati Uniti, uno in Europa centrato sulla Germania e uno in Asia trainato da Cina, Giappone e Corea del Sud (Figura 3). 

 

Figura 3 Paesi principalmente coinvolti nel commercio di parti e componenti

Fonte: World Bank Group et al. 2017.

 

Nulla di sorprendente se si considerano i modelli gravitazionali secondo i quali la dimensione del commercio tra due Paesi è direttamente proporzionale alla loro dimensione e inversamente proporzionale alla loro distanza. Inoltre, la regionalizzazione delle catene è favorita dagli accordi di libero scambio come dimostrato dall’accordo NAFTA / USMCA e dall’Unione Europea (UE). La Cina, già hub del polo asiatico, potrà ulteriormente beneficiare dal Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), l’accordo economico-commerciale che la Cina ha firmato il 15 novembre scorso con i Paesi dell’ASEAN, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. RCEP è diventato il più grande accordo commerciale del mondo dopo che Trump ha ritirato gli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP), accordo dal quale la Cina restava esclusa, deludendo alleati asiatici quali Giappone e Vietnam. Il RCEP è indubbiamente meno ambizioso del post-TPP, ovvero il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), in termini di copertura settoriale, regole e standard; tuttavia verranno azzerate le tariffe tra i Paesi coinvolti per la maggior parte dei prodotti mettendo a sistema una rete già esistente di accordi tra i membri armonizzando le regole di origine, ovvero le modalità con le quali si definisce la nazionalità dei prodotti e pertanto la loro circolazione duty-free all’interno della regione. Si tratta del primo accordo plurilaterale della Cina con Paesi in parte già coinvolti nella Belt and Road Initiative (BRI).

Quanto descritto dovrebbe far suonare il campanello d’allarme per gli Stati Uniti, alle prese con il cambio di presidenza e con l’atteso cambio di politica estera e commerciale, ma soprattutto per l’UE. Per oltre quattro anni concentrata su Brexit e seduta sugli allori del ‘Brussels effect’[6], l’UE si è trovata rallentata nella proiezione internazionale da una politica estera intergovernativa e da una politica commerciale soggetta, per gli accordi più importanti, alla ratifica dei singoli parlamenti nazionali[7]. Inoltre, oggi più che nel 2013, anno in cui si aprivano ufficialmente le negoziazioni del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), la variazione dei rapporti di forza richiede una collaborazione tra UE e Stati Uniti il cui peso congiunto è sceso a 33,7% a 30,9% (Figura 4) mentre la Cina, entrata nel WTO nel 2001, da allora ha più che raddoppiato il suo peso.

 

Figura 4  Pil in PPA[8] 
(% Pil mondiale)

Fonte: Fondo Monetario Internazionale, Ottobre 2020

 

Caveat finale: non tutte le catene del valore possono (facilmente) rimodellarsi

Ridisegnare le catene del valore non è un’operazione immediata soprattutto se queste sono estese, con investimenti diretti, e su più livelli. Per esempio, una multinazionale è sicuramente a conoscenza dei fornitori diretti, ma potrebbe non esserlo di tutte le aziende che con questi operano, in ogni fase della produzione. Questa complessità si accompagna ai vincoli imposti da ciò che, nel breve-medio periodo, non è digitalizzabile, robotizzabile e, soprattutto, disponibile o sostituibile. 

Si pensi, per esempio, all’importanza crescente dei metalli rari con il combinato disposto di domanda di economia digitale e di sostenibilità ambientale. Grazie alle loro proprietà chimico-fisiche, le terre rare sono elementi cruciali nei motori elettrici una volta processate e convertite in magneti, nelle tecnologie militari e civili come i robot e le turbine eoliche. In realtà tali materiali sono abbastanza diffusi sotto la crosta terrestre, ma è la bassa concentrazione dei loro depositi a renderli rari e pertanto costosi da estrarre. Tuttavia, per effetto di caratteristiche geologiche, di standard lavorativi e ambientali adottati e/o di coinvolgimento delle istituzioni (e fondi) pubblici, pochi Paesi sono e saranno, nel breve-medio periodo, fornitori di tali metalli[9].

Pertanto, se ogni catena è resistente quanto il suo anello più debole, questo vanifica ogni tipo di sogno autarchico talvolta nascosto tra formule come “autonomia strategica aperta” sulla quale la Commissione Europea ha lanciato una consultazione a giugno scorso per dotare di contenuti una strategia sulla quale, nonostante le dichiarazioni rilasciate ai più alti livelli, vige molto scetticismo. Non sarà facile declinare una politica commerciale aperta con una pro-attiva politica industriale verticale su settori ad alta tecnologia. Questo a causa dei vincoli “oggettivi” - per esempio sulle terre rare appena citate - e degli analoghi interessi degli altri partner/competitor quali Stati Uniti e Cina. Tuttavia, in questo scontro tra blocchi regionali guidati dai grandi Paesi con la scala e il know-how adeguati per assorbire questo re- e near-shoring, chi potrebbe uscirne sconfitto sono i Paesi periferici sempre parte del multilaletaralismo promesso in sede di WTO, ma ‘strategico’. 




[1] Thomas L. Friedman, Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo. Mondadori, 2006.
[2] Il vantaggio comparato, concetto attribuito a David Ricardo, è la capacità di un'economia di produrre un particolare bene o servizio ad un costo opportunità inferiore rispetto a quello dei suoi partner commerciali.
[3] La mano invisibile è una metafora proposta da Adam Smith nel XVIII secolo per rappresentare le forze invisibili di un'economia di mercato. Attraverso l'interesse personale individuale e la libertà di produzione e consumo, vengono realizzati anche gli interessi della società nel suo insieme. 
[4] Si pensi all’utilizzo della sicurezza nazionale, da parte degli Stati Uniti (Section 232 del Trade Expansion Act del 1962), per giustificare le tariffe sull’acciaio e l’alluminio adottate nel marzo 2018.
[5] Nella figura la concentrazione è calcolata con il cosiddetto Herfindahl-Hirschman Index (HHI), ovvero la somma delle quote di mercato di ciascun Paese nel settore considerato, elevata al quadrato. Per esempio, in caso di 10 Paesi con una quota di mercato del 10% ciascuno, l’HHI è pari a 1.000; un monopolio ha un indice HHI di 10.000.
[6] Come spiegato da Anu Bradford in The Brussels Effect. How The European Union Rules the World è (Oxford University Press, 2020), il Brussels effect è il processo tramite il quale l’UE esporta de facto, ma non necessariamente de jure, la sua normativa attraverso meccanismi di mercato.
[7] Quando un accordo rientra nelle competenze condivise o concorrenti, l'accordo viene quindi considerato “mixed”' e deve passare attraverso un processo di ratifica in due fasi: l'UE e gli Stati membri devono entrambi ratificare l'accordo.
[8] Per l’UE del 2001 si sono considerati, per facilitare una comparazione, tutti i 28 Paesi membri a partire dal 2013 in quanto il percorso di allargamento ad Est era già stato lanciato. Per il 2020, l’UE non comprende il Regno Unito. 
[9] Interessante il caso dei magneti cinesi necessari per il sistema radar degli F-35, gioiello di tecnologia americana, descritto da Guillaume Pitron in La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale. Luiss University Press, 2019.

 

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Geoeconomia
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AUTORI

Stefano Riela
ISPI e Università di Auckland

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