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Commentary
Centrafrica: i nuovi scenari della transizione
28 febbraio 2014

L’uscita dalla scena di Michel Djotodia e la tormentata nomina della nuova presidente, Catherine Samba Panza, marcano un passaggio cruciale nella ormai lunga “transizione” centrafricana. Con le modeste risorse politiche, economiche e istituzionali di cui può disporre, la presidente riceve dal Comitato nazionale di transizione il mandato di guidare il paese fino alle elezioni previste per il prossimo gennaio e assume la responsabilità di gestire una crisi senza precedenti nella storia della Repubblica. 

In passato, infatti, gli scenari di crisi seguivano un modello abbastanza ben profilato, già a partire dal golpe di Jean-Bedel Bokassa, il futuro empereur, nella notte di Capodanno del 1966. La scansione prevede che il potere installato a Bangui viene a un certo punto messo in discussione, si raggiunge un acme di violenza a cui segue, deposto il presidente in carica, un periodo piuttosto lungo di relativa stabilità con un altro inquilino del Palazzo. Quest’ultimo organizza poi “libere” elezioni per farsi confermare plebiscitariamente alla carica di presidente “democraticamente eletto”. Questo succede con André Kolingba, che spazza via David Dacko (1981), effimero successore di Bokassa; questo accade con François Bozizé, che depone il pur eletto Ange-Félix Patassé (2003), architetto di uno stato predatorio che ha pochi eguali in Africa sub-sahariana. È grazie a questo modello che il Centrafrica sviluppa una sua resilienza e per decenni riesce a evitare la decozione finale, quella “somalizzazione” di cui parla oggi con allarme François Hollande e che tanto preoccupa il presidente ciadiano Idriss Déby Itno. 

Ma ora si sta scrivendo un nuovo canovaccio. Alla lotta armata della Séléka, che ha portato alla caduta di Bozizé, non è seguita la stabilità relativa che consentiva la ricostruzione dei pur labili quadri di vita oubanguiani, nelle campagne e, ancor più, nei centri urbani. La violenza, matrice d’instabilità, è invece continuata: auto alimentandosi e diffondendosi a macchia di leopardo in tutto il paese e soprattutto nei territori gbaya dell’ovest e nord-ovest.

È così che la situazione centrafricana sta miscelando diversi ingredienti, ognuno dei quali è già di per sé esplosivo. La crisi propone una declinazione plurima: intercomunitaria, securitaria, umanitaria. 

La prima è certamente la più insidiosa in una prospettiva di lungo periodo. L’identificazione di piccoli gruppi combattenti, in primis Séléka e anti-Balaka (oltretutto privi di una qualsiasi direzione politica e fortemente divisi al loro interno), con vasti conglomerati umani è un’operazione linguistico-simbolica gravida di conseguenze fratricide in un paese sì violento, ma pure estremamente tollerante rispetto alle vicendevoli diversità dei propri abitanti. Sicché gli anti-Balaka, milizie rurali inventate qualche anno fa da Bozizé per combattere la piaga dei banditi di strada, i famigerati zaraguinas, sono diventati nel discorso centrafricano – e purtroppo, sempre più internazionale – “cristiani” che combattono i “musulmani”. Pur provenendo da popolazioni non sempre cristianizzate e ancorate, invece, alle tradizioni basiche, come mostrano i riti, culti e simboli corporali della loro invincibilità, già visti cinquant’anni fa in Congo e negli anni successivi in altre parti d’Africa. I “musulmani”, poi, sarebbero i gruppi di Séléka allo sbando, poche migliaia, e in via di dispersione nel paese. Senza contare che, a proposito di semplificazioni micidiali, i Séléka sono indicati a volte tout court come ciadiani, con scene di violenza “nazionale” esercitata contro i convogli in fuga, protetti dai soldati di N’djamena. Una violenza etno-religiosa del tutto artificiosa nella genesi, eppure quanto mai reale negli effetti, sta infiammando il Centrafrica con conseguenze che vanno già oggi oltre i parossismi del linciaggio e dello sterminio. Tra i “musulmani”, termine che è utilizzato ormai come una clava, si pongono indifferentemente i commercianti senegalesi e nigeriani, i piccoli imprenditori, autisti, artigiani congolesi, ciadiani, camerunesi, nigerini installati in Centrafrica da generazioni e spina dorsale dell’economia del paese.

“Musulmani” diventano genericamente anche i Mbororo, gli allevatori transumanti appartenenti alla galassia Peul, che sono arrivati qui negli anni ’30 del secolo scorso, con l’attivo beneplacito degli amministratori francesi, per rifornire di proteine animali una dieta locale che la cacciagione tradizionale non riusciva più in alcun modo ad assicurare. Ora, la caccia al Mbororo, con lo sterminio delle mandrie, istituisce per paradossale “via religiosa” una conflittualità professionale agricoltore-allevatore sinora solo latente. E questo provoca, come prima conseguenza, la rarefazione della carne sui mercati urbani, a cominciare da Bangui. A ciò si aggiunga che a causa della violenza diffusa, i campi vengono abbandonati e si viene a creare una situazione di vulnerabilità alimentare simile a quella che attanagliò i territori centrafricani a cavallo del Novecento, al tempo delle compagnie concessionarie, i cui metodi violenti (requisizioni, lavori forzati, punizioni corporali) avevano determinato la desertificazione delle campagne oubanguiane.

La declinazione securitaria della crisi, strettamente intrecciata a quella intercomunitaria, fa perno sui nuclei armati diffusi sul territorio. Sullo sfondo di questa frammentata geografia del ribellismo, non nuova in Centrafrica, si muove una pluralità di soggetti internazionali, con interessi eterogenei e a scale differenziate. Due potenze “tutelari” intanto, una globale (Francia) e una regionale (Ciad). Esse incrociano da un lato i co-protagonisti equatoriali, con rivalità alquanto pronunciate (Gabon e Congo-Brazzaville, ma anche Ruanda, Burundi, Camerun); dall’altro le istituzioni internazionali onusiane e africane (UA, Cemac); dall’altro lato ancora, le piccole e grandi ONG umanitarie e sviluppiste. In attesa che le Nazioni Unite assumano in proprio un’azione militare che si dà da troppo tempo come imminente, sono presenti a vario titolo in terra oubanguiana distaccamenti armati piuttosto consistenti (truppe africane della Misca, francesi, ciadiani). Qui tuttavia non si combatte una guerra, come già nell’Azawad e nel complesso scacchiere sahelo-sahariano. Sicché poste in gioco, strategie e tattiche degli attori in presenza nelle due situazioni non possono essere assimilate l’una all’altra, a cominciare dai dispositivi francesi dell’operazione Serval in Mali, e Sangaris in Centrafrica. Piuttosto, bisogna mettere in sicurezza il territorio, difenderlo dalle bande armate che lo depredano. Giacché, in effetti, occorre almeno ricordare, accanto alle fazioni Séléka e anti-Balaka, le infiltrazioni continue in tutto il sud-est di gruppi provenienti dal Sud-Sudan e dall’Uganda (Armata di resistenza del Signore). In queste condizioni, servono certo delle forze di proiezione, ossia reparti militari che agiscono laddove necessario, puntualmente e temporaneamente. Ma servono soprattutto delle “forze di guarnigione”, che siano permanentemente insediate sul territorio, dove possano ridare alla gente il proprio spazio domestico, e dove possano sentirsi esse stesse a casa propria. Più che moltiplicare sigle ed effettivi, dunque, vale definire i compiti dei diversi reparti. E vale, soprattutto, ricostituire una Forza armata centrafricana, liberata dagli equivoci delle “incorporazioni” di gruppi ex-ribelli, ben armata ed equipaggiata, che riacquisti fiducia in se stessa e ne sappia dare alle popolazioni insediate. 

Infine la crisi umanitaria sta raggiungendo livelli del tutto insostenibili. Una ferocia senza pari si scatena negli assalti predatori ai villaggi “cristiani” e, alternativamente, “musulmani”, ovvero – nelle aree urbane – alle case e negozi e sobborghi “ciadiani”, e poco importa se i quartieri sono cosmopoliti, se case e negozi appartengono a senegalesi o nigeriani o centrafricani. Con il macabro corteo delle fosse comuni, dei corpi carbonizzati, martoriati, fatti a pezzi e lasciati lungo le strade, nei campi, nelle piazze. Un quinto della popolazione è sfollata per fuggire da queste violenze. Il rimpatrio dei ciadiani, ma anche la fuga in massa degli altri “immigrati”, procede senza sosta. Si osserva nei villaggi impauriti una ripresa del reclutamento di bambini-soldato, una recrudescenza della stregoneria. Denutrizione e malnutrizione accentuano i tratti di una situazione sanitaria che rischia ormai il collasso. 

La pur tenace resilienza centrafricana è messa a dura prova. Sarà Catherine Samba Panza a darle il nuovo slancio di cui ha bisogno? 

Angelo Turco, , geografo, è preside della Facoltà di Arti, turismo e mercati, IULM, Milano. 

 

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