Brexit alla fine c'è stata e la Gran Bretagna è fuori dall'Unione Europea. Ma sbaglierebbe chi pensasse che la questione sia finalmente chiusa. Anzi a ben vedere la vera Brexit inizia solo ora. Dal 31 gennaio è iniziato infatti un “periodo di transizione” che durerà fino a fine anno e durante il quale Londra si impegna ad applicare le normative europee e a pagare la propria quota di contributi al bilancio comunitario. Nello stesso periodo UK e UE dovranno negoziare il trattato che definirà i loro rapporti dopo dicembre 2020. Non sarà per nulla facile, anche perché in genere negoziazioni di questo tipo richiedono molto tempo, spesso degli anni, mentre in questo caso sono disponibili meno di dodici mesi. Tanto più perché Johnson ha già dichiarato che non intende puntare a un eventuale allungamento del periodo di transizione. Se entro fine anno le trattative non avranno successo, dall’inizio del 2021 il Regno Unito potrebbe rappresentare per Bruxelles un qualsiasi paese extra-UE con cui non si hanno accordi commerciali preferenziali; vi si applicherebbero quindi solo le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Il che significa, peraltro, che verrebbero introdotti dazi e controlli alle frontiere per le merci britanniche dirette verso l’UE e viceversa.
Nella speranza però che questo scenario nefasto – che non conviene a nessuno – venga evitato, che tipo di rapporto è lecito attendersi in futuro tra Londra e Bruxelles? Nell’accordo di recesso (e nell’allegata Dichiarazione politica) emergono già indicazioni preziose al riguardo. L’accordo di Johnson si discosta da quello di Theresa May che, nel tentativo di evitare un confine fisico tra Irlanda e Irlanda del Nord (rispettando così gli Accordi del Venerdì santo del 1999), si impegnava di fatto a tenere l’intero Regno Unito nell’ambito di una unione doganale con il resto dell’UE fino a che non si fosse trovata una soluzione diversa. In questo caso i dazi tra UE e UK sarebbero stati pari a zero ed entrambi avrebbero applicato gli stessi dazi nei confronti dei paesi terzi. Un accordo troppo stringente per Johnson, perché non gli avrebbe permesso di negoziare trattati commerciali con il resto del mondo, come ad esempio quello con gli USA già preannunciato dal presidente Donald Trump. Per tenersi dunque le mani più libere, Johnson ha preferito sacrificare l’Irlanda del Nord. Il suo accordo infatti si dirige verso una area di libero scambio in cui i dazi con l’UE sono azzerati (o quasi), ma non si applicano dazi comuni verso il resto del mondo. Il che vuol dire che per le merci in transito nell’Irlanda del Nord si applicheranno i dazi e le regole dell’Unione europea – quindi diversi da quelli del Regno Unito – e che i relativi controlli verranno fatti nel Mare d’Irlanda. In pratica il Regno Unito si troverà a dover gestire un confine all’interno del proprio territorio.
Non è un caso che ai nordirlandesi l’accordo non sia piaciuto per nulla e che abbiano votato contro. La possibilità lasciata al Parlamento nordirlandese di esprimersi sull’accordo ogni quattro anni a partire dal 2024, non è servita a calmare gli animi. In effetti, l’accordo di Johnson cela due grossi rischi per la sovranità del Regno Unito. Il primo è quello di confondere una riacquisita sovranità formale con una sovranità sostanziale. In pratica, è vero che Johnson potrà negoziare accordi commerciali con paesi terzi, ma potrà veramente avere un peso specifico tale da spuntarla nei negoziati, soprattutto con colossi come la Cina o gli Usa della “America First” di Donald Trump? Le prime avvisaglie in merito a un eventuale accesso delle imprese statunitensi al sistema sanitario britannico (un vero e proprio tabù per Londra) danno il senso del potenziale sbilanciamento del potere contrattuale tra le due parti. Il secondo rischio per la sovranità britannica è ancora più alto. In questo caso infatti l’intero Regno Unito rischia di sfaldarsi. L’aver lasciato l’Irlanda del Nord con un regime di dazi e regole diverse (quelle europee) dal resto del paese potrebbe far riesplodere tensioni e violenze nella regione, con esiti difficilmente prevedibili.
Poi c’è il caso della Scozia, in cui crescono le richieste di un nuovo referendum indipendentista. Se nel 2014 l’aveva spuntata il fronte contrario all’indipendenza, cresce adesso il rischio che l’esito sia opposto. Con queste prospettive, se il Parlamento scozzese approvasse una mozione per chiedere un nuovo referendum, questo avrebbe alte chances di essere respinto dal Parlamento di Westminster. Ci sarebbero quindi due Parlamenti britannici che si esprimono in modo opposto. Una situazione che si avvicinerebbe molto a quella che vista tra Madrid e Barcellona negli ultimi anni.
Lasciando però a Johnson la gestione dei suoi rischi interni, Bruxelles dal canto suo si dice pronta a un accordo ampio “senza tariffe, quote o dumping”. Ma la nuova presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, teme che la mancanza di tempo costringerà le due parti a darsi delle priorità, eventualmente optando per un accordo commerciale più limitato e più facile da raggiungere e ratificare. Se Johnson sembra mirare a un accordo che ricalchi in qualche modo quello tra UE e Canada (con libertà di movimento per beni e servizi e cooperazione flessibile in altre aree), von der Leyen ha però già ammonito che “senza libertà di circolazione per le persone, non può esserci libertà di movimento per beni e capitali; senza standard comuni in materia ambientale, di tassazione e diritto del lavoro non può esserci accesso al più grande mercato unico del mondo”. Insomma le distanze ci sono e sono ancora enormi. Basteranno undici mesi per colmarle?