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Energia?

Che fine (non) faranno i fossili?

Massimo Nicolazzi
30 novembre 2021

Alla luce delle dinamiche energetiche attuali, andiamo incontro ad anni di presumibile volatilità dei prezzi e di forte necessità di impegno pubblico per la mobilitazione dell’investimento necessario per la transizione. Dove andiamo e con che passo sarà in funzione dei soldi disponibili, della tecnologia e del consenso. E distribuire in maniera socialmente non regressiva i costi della transizione sarà la condizione del consenso.

Per ora un segnale importante viene dal G20 di Roma, da dove anche grazie all’autorevolezza della Presidenza sono venuti l’unanime riconoscimento politico della necessità di mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi centigradi e insieme la condivisione dell’obiettivo di raggiungere net 0 emissions “by or around mid century”. Poi è venuta Glasgow, i cui risultati molti hanno giudicato scarsi e in parte contraddittori. Però Glasgow ha mostrato forse per la prima volta una universale condivisione politica della priorità “riscaldamento ambientale”. Vero che nulla è stato deciso sul come arrivarci e che dunque manca la condivisione di una roadmap; ma la condivisione politica ne è comunque la necessaria se pur non sufficiente premessa.

 

Le cause della crisi energetica e le dinamiche dei mercati

L’attuale crisi energetica ha cause assai diversificate, però anche qualche sicuro corresponsabile. Per il petrolio, Russia e OPEC hanno di concerto mostrato una forte capacità di controllo dei volumi prodotti e questo ha contribuito a tendere al rialzo il prezzo. La decisione del Presidente Biden di mettere in vendita volumi di riserve strategiche al fine di calmierare i prezzi ha lasciato i mercati pressoché indifferenti. Poi a distanza di pochi giorni i prezzi sono quasi crollati; ma i primi commenti puntano il dito sulla variante sudafricana, e non sull’effetto delle scorte strategiche. Insomma fu il virus, non Biden (per citare Oil & Energy Insider, “Oil Prices Crash As Covid Does What Biden Couldn’t”).  

Per il gas è stata invece la tempesta perfetta. Il Brasile che per siccità vede crollare la produzione elettrica e deve sostituirla importando gas; il vento in Mare del Nord che si affievolisce facendo crollare la generazione eolica, anche qui sostituibile solo con generazione a gas; i cinesi che si rimettono a fare i cinesi e a consumare gas come e anzi più che ai tempi prima del Covid-19; qualche manutenzione straordinaria sulle linee e qualche guaio agli impianti; e così a seguire. Un cocktail forse (e sperabilmente) irripetibile che ha fatto schizzare i prezzi al cielo. E che ci ha anche fatto constatare come il mercato del gas, grazie soprattutto al gas naturale liquefatto, si stia globalizzando. Tutti a esorcizzare la crisi europea, ma nel frattempo i rigassificatori europei restavano, se non vuoti, largamente sottoutilizzati (dall’inizio della crisi, mai oltre il 38% di capacità). Il Gnl (gas naturale liquefatto) va via nave dove lo porta il prezzo. Ed è andato massicciamente in Asia anziché da noi. Il che indica solo che gli importatori asiatici erano disposti a pagarlo più di noi.

Qui si colloca la storia della nostra “dipendenza” dalla Russia e del nostro essere ricattabili via minaccia di taglio delle forniture. La dipendenza del bilancio federale dalla Russia dalle revenues generate dall’esportazione di idrocarburi porterebbe peraltro a pensare che la Russia forse il taglio non potrebbe permetterselo (noi gli paghiamo il gas, ma loro col gas si pagano il welfare). I metanodotti poi sono gli artefici dell’ultima fattispecie di matrimonio indissolubile: quello tra un giacimento e un mercato. I tubi non possono cambiare direzione e i giacimenti da cui la Russia esporta in Cina sono diversi da quelli da cui esporta in Europa. Power of Siberia 2 (il nuovo gasdotto in progettazione da Yamal – regione da cui partono le esportazioni in Europa - alla Cina) potrebbe forse modificare la situazione (due gasdotti per un giacimento…); ma c’è tempo fino a dopo il 2030 per capirlo. 

Negli ultimi mesi quel che è successo è che Gazprom ha consegnato in Europa per intero i volumi cui era contrattualmente obbligato e ha però rifiutato alcune richieste di volumi aggiuntivi. La ragione ufficiale era che dovevano riempire con priorità i loro stoccaggi e quella attribuita era legata al far pressione per il completamento autorizzativo di Nord Stream 2. Possiamo inutilmente dibatterne all’infinito. Per adesso limitiamoci a constatare che l’impegno alla fornitura sembrerebbe ribadito; e che comunque il fornitore non è in condizione di dettare il prezzo.

Il mercato del gas ha ormai elementi di globalità. Il prezzo lo fa l’Asia (con il GNL spot nel ruolo del price maker e i contratti di lungo termine, Gazprom incluso, nella parte dei price takers); ma gli altri si accodano. Lo schizzo verso l’alto è stato globale (seppur molto più attenuato negli Stati Uniti per effetto della produzione da shale); e verrebbe da dire pressoché indipendente dalla quota della penetrazione di rinnovabili nella generazione elettrica dei singoli Paesi.  Poi lo schizzo dovrebbe essere (o almeno si spera) congiunturale, come un po' (o forse molto) racconta il fatto che gli acquisti futures dal secondo trimestre 2022 viaggiano su prezzi circa la metà di quelli correnti. Però per arrivare al secondo trimestre 2022 bisogna attraversare l’inverno; e qui soprattutto in Europa il relativamente basso livello dello stoccaggio (L’Europa a fine ottobre aveva stoccaggi riempiti al 76 % e l’Italia a 84, laddove l’anno precedente si era a 93 e 94% rispettivamente) qualche brivido in caso di febbraio super rigido te lo potrebbe dare e il prezzo potrebbe anche schizzare oltre l’adesso.

La gravità della congiuntura non può a questo punto che essere funzione della temperatura. Può invece non essere congiunturale la forte volatilità del prezzo. Man mano che (doverosamente) calano la generazione da olio combustibile (già da tempo marginale) e quella da carbone, sparisce progressivamente l’interfuel competition tra fossili. Se, come con l’eolico quest’anno, diminuisce contingentemente la generazione rinnovabile, è solo al gas che ti puoi rivolgere. Meno vento e più gas non ha al momento alternative; e l’alternativa, quando è unica, è normale che vada in tensione dal lato del prezzo.

 

Il prezzo tra diritti di emissione e carbon tax

Il costo dell’energia ha diverse componenti. Il prezzo fossile, di necessità, si porta appresso il costo dei permessi di emissione. Costo che deve poi essere traslato in bolletta dal generatore a pena di sua non sopravvivenza economica. Il permesso di emissione si manifesta così dal punto di vista del consumatore finale come una forma di tassazione al consumo. L’aggravio di prezzo del gas risultante dalla tempesta perfetta lo abbiamo definito congiunturale. Quello da tassazione in UE possiamo invece considerarlo strutturale. I permessi disponibili saranno via via ridotti nel tempo; e il prezzo del singolo permesso nel 2021 è già passato da 35 ad oltre 73 euro. La componente di prezzo “costo del permesso” è permanente e con tendenza a crescere nel tempo. Timmermans ha affermato che “solo” il 20% dello schizzo attuale è attribuibile alla tassazione (complessiva); e il resto al mercato. Quel “solo” in realtà è cospicuo (lo “schizzo” è arrivato oltre gli 80 centesimi per kWh) ed è forse sovradimensionato; ma il punto qui è solo che l’aumento strutturale comincia a farsi visibile e che una delle poche cose condivise tra tutte le parti in commedia è che la quota di “tassazione” attribuibile al costo dei permessi continuerà la sua ascesa (tra l’altro, sopra gli 80 euro potrebbe rendere economico il sequestro di CO2 giusto solo per generazione elettrica).

Oggi le variazioni del prezzo del gas si traslano poi pressoché automaticamente sul prezzo dell’energia elettrica, e ciò perché il prezzo orario all’ingrosso si determina col sistema del marginal price system (il prezzo orario è pari al prezzo offerto dal fornitore marginale che ha quotato il prezzo più alto; che è normalmente il prezzo offerto da una centrale di generazione alimentata a gas naturale).Discutere di Pay or Bid o di altre tecniche di disaccoppiamento dei prezzi di elettricità e gas potrebbe essere opportuno.

Mercato, tasse e, si diceva, debolezza europea. La virtù (?) della carbon tax sembra accompagnarsi a un approccio più ideologico che progressivo al fossile che resta. Ovvero al gas. Sappiamo che non possiamo farne a meno nell’elettrico almeno sino a quando non avremo perfezionato e moltiplicato la capacità di stoccaggio di energia elettrica. Speriamo che nel 2050 il riscaldamento abbia per protagoniste le pompe di calore; ma sul patrimonio edilizio esistente (soprattutto quello urbano) non è per domattina. L’idrogeno sarà una meraviglia, ma se lo vuoi solo verde e lo vuoi mettere in rete a rimpiazzare significativamente il gas, anzitutto non sei sicuro di farcela e comunque vada è ben dentro il prossimo decennio. C’è un quantum di gas che per un quantum di tempo ci è ancora indispensabile, e deve essere disponibile a prezzi competitivi.

Anche la Commissione europea ha mostrato i suoi limiti nella gestione della crisi. Ha fatto un vertice e ha più o meno deciso di studiare i mercati, raccomandato di aiutare i consumatori più indigenti e, infine, di lavorare a misure di contenimento dei prezzi. Insomma, non ha deciso. Più in generale e anche con riferimento al nucleare la parola magica oggi è tassonomia. L’elenco dei progetti e settori ritenuti sostenibili. La tassonomia non è ancora approvata perché non vi è accordo sull’includervi gas e/o nucleare. Chi non è nell’elenco virtuoso non ha accesso a fondi comunitari e in pratica, magari via ESG, neanche a finanziamenti privati. L’esclusione del gas significherebbe in pratica rendere pressoché impossibile finanziare nuove infrastrutture di importazione e lo stesso vale o quasi per il finanziamento della generazione nucleare. Poi, soprattutto per il nucleare, ricordiamoci che la decisione di costruire una centrale nucleare non è della Presidente della Commissione ma dei singoli Stati (e dunque magari qualche Paese, Francia giusto per non far nomi, probabilmente se lo finanzierà comunque).

Se la UE escluderà i progetti gas dalla tassonomia farà comunque una scommessa sul fatto che le infrastrutture di cui disponiamo sono sufficienti a garantirci tutto il gas che ci serve di qui alla decarbonizzazione.

 

Una lunga strada alla transizione

La transizione non è un pasto gratis. Costa e ci costa. Accelerarla potrebbe temporaneamente voler dire minor crescita e maggiore costo dell’energia. E rallentarla può avere conseguenze molto gravi sul nostro sviluppo futuro (uno studio recente ripreso dal Financial Times suggerisce che ogni grado di aumento della temperatura comporterebbe la migrazione di un miliardo di persone dalle attuali aree di residenza, aree che sarebbero rese invivibili dal cambiamento di temperatura). 

Per sovrasemplificare il percorso della transizione possiamo forse usare una metafora. Si immagini un treno che parte dalla stazione 2021 con destinazione 2050. A ogni stazione intermedia il treno deve scaricare fossili e caricare almeno l’equivalente di energia e generazione rinnovabili per tenere alimentata la sua caldaia (o, se volete, il suo ciclo economico). Che cosa succede se alla stazione 2024 non trovo rinnovabili da caricare, o comunque ne trovo meno di quanto programmato? Posso non scaricare i fossili e arrivare a piena velocità alla stazione 2025 (evitando anche tensioni sui prezzi dell’energia) dopo aver però emesso in atmosfera tutto l’emettibile e aver accelerato il global warming. Oppure posso procedere a scartamento ridotto, che è virtuoso, però implica una qualche tensione sui prezzi e perciò, anche qualche turbolenza sociale e politica.

Come superare le difficoltà? Anzitutto cercando di arrivare puntuali alle stazioni del treno. Come spesso ripeto, un processo energetico a dirlo è semplice. Ci vogliono una fonte e un convertitore che trasformi l’energia in lavoro utile. Solo che, se cambi fonte, devi cambiare anche il convertitore, fornelli di casa inclusi. In un mondo di quasi 8 miliardi di persone che in questo secolo diventeranno 9 miliardi la questione può farsi complessa. E chiamarla Rivoluzione è comunque sbagliato. Non sarà la presa del Palazzo d’Inverno, ma un lungo percorso, stazione per stazione, di progressiva decarbonizzazione. Dovremo essere tempestivi nell’investire (e IEA ritiene che per esserlo dovremmo spendere su base annua oltre il 300% di quanto spendiamo oggi) e nello sviluppare tecnologia. Attenti inoltre alla distribuzione del costo sociale della transizione; perché se, via tassazioni o scarico dei costi in bolletta o con altri provvedimenti recessivi, resuscitiamo e alimentiamo gilet gialli la transizione senza consenso finisce che si ferma.

Se poi qualcosa si inceppa non alla 2024 ma in qualche altra stazione ci toccherà decidere nell’alternativa tra accelerare e decelerare. E non potremo affidarci alla scienza, perché la scelta sarà prerogativa del politico e sua è la giurisdizione esclusiva a mediare tra costo sociale (di oggi) e costo ambientale.

Ricordare in progress al politico che il costo ambientale che ritiene ragionevole di pagare oggi rischia di essere via riscaldamento moltiplicatore del costo sociale che ci toccherà pagare domani potrebbe forse esserci ed essergli utile.

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AUTORI

Massimo Nicolazzi
Università di Torino

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