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Global Watch
Che ne è stato di Brexit?
Antonio Villafranca
05 giugno 2020

L’esplosione della crisi da coronavirus ha comprensibilmente distolto l’attenzione da questioni internazionali che fino a pochi mesi fa occupavano le prime pagine dei giornali. Tra queste c’è senza dubbio Brexit. Che se ne parli poco è piuttosto ovvio, non solo a causa del Coronavirus. Brexit infatti c’è stata ma non si vede. O meglio non se ne vedono gli effetti per il semplice fatto che al momento sono pochissimi. Questo perché fino alla fine di quest’anno l’Unione europea e il Regno Unito sono in un periodo di transizione che di fatto cristallizza la situazione a prima dell’uscita di Londra dall’Ue. Non è cambiato quindi sostanzialmente nulla per le merci, per i servizi e per la mobilità delle persone (al netto ovviamente delle restrizioni legate al COVID-19).

Ma la situazione non rimarrà così e i rischi per un futuro rapporto senza regole (se non quelle del WTO sul commercio) continuano ad aumentare. Non si dovrà nemmeno attendere fine anno perché una prima importante scadenza è quella di fine giugno. È questa infatti la scadenza ultima entro la quale il premier Johnson può chiedere una estensione del periodo di transizione per un anno ancora al massimo. Ma Boris Johnson ha ribadito più volte che non intende chiedere alcuna estensione e che l’accordo dovrà essere raggiunto entro fine anno o semplicemente non ci sarà. D’altra parte Brexit a tutti i costi è stato e rimane uno dei collanti dei conservatori e Johnson non ha nessuna intenzione di vedere il suo partito spaccarsi puntando a una Brexit soft o alla proroga del periodo di transizione. Tanto più che in questo periodo la Gran Bretagna adotta tutta la normativa e regolamentazione europea, ma non partecipa alle Istituzioni comunitarie e dunque alla produzione di queste stesse regole.

Difficile che il partito di Johnson possa accettare a lungo una situazione di obiettiva sospensione di prerogative delle Istituzioni britanniche quando l’obiettivo dei Brexiteers era proprio quello di riacquisire la sovranità ceduta a Bruxelles. Eppure, dopo un periodo di sospensione e le inusuali, dure parole da parte del compassato capo negoziatore europeo Michel Barnier (che ha accusato il Regno Unito di non volere un accordo), questa settimana i negoziati sono ripartiti. Rimangono tuttavia in salita e anzi è difficile immaginare che i negoziatori giungano a breve a un qualche accordo. A dominare l’agenda ci sono due questioni.

 

Se anche la pesca conta

La prima riguarda la pesca. A ben vedere si tratterebbe di una cosa da poco se si trattasse di normali negoziazioni; ma decisamente quelle sulla Brexit non lo sono. La pesca pesa infatti per lo 0,12% nel Pil britannico, una vera e propria goccia nel mare dell’economia del paese. Ma è un tema politicamente molto sensibile anche perché diventato non solo un cavallo di battaglia dei Brexiteers ma di Johnson stesso che più volte l’ha richiamato nella scorsa campagna elettorale. In pratica Johnson vuole limitare fortemente (se non proprio impedire) la pesca nelle proprie acque territoriali da parte dei paesi europei. I paesi più fortemente colpiti sarebbero Belgio, Danimarca e Germania che ricordano a Londra che la loro pesca nelle acque britanniche è vecchia di centinaia di anni.

L’accordo nell’ambito dell’Ue era di reciproco ingresso dei pescherecci nelle rispettive acque territoriali, anche se in effetti è sempre stato sbilanciato: i pescherecci europei pescano nelle acque britanniche otto volte tanto quanto facciano quelli britannici nelle acque europee. Ma appunto si tratta pur sempre di importi irrisori sia per l’economia europea che per quella britannica, il cui peso però aumenta notevolmente sul piano politico. Anche perché la questione viene usata strumentalmente per cercare di trarre le maggiori concessioni possibili sulla seconda – e decisamente molto più importante – questione che divide Londra e Bruxelles: il level playing fiel.

 

Scambi liberi ed equi

Per comprendere appieno l’importanza di questa questione, bisogna ricordare che dopo aver stracciato il precedente accordo di Theresa May con l’Ue (che sostanzialmente prevedeva che UK rimanesse dentro il Mercato Unico finché non si fosse risolta la questione nordirlandese), Johnson punta dritto a un accordo di libero scambio che permette a Londra di stipulare accordi commerciali con altri paesi (a partire dagli Usa di Trump) e con tariffe sostanzialmente pari a zero sulle merci. Su questo anche i leader Ue non avrebbero molto da ridire, ma il pomo della discordia riguarda la regolamentazione e la giurisdizione.

In sostanza, l’Ue teme che in futuro il Regno Unito possa farle una ‘concorrenza sleale’ attraverso una regolamentazione britannica meno stringente di quella comunitaria sulle merci (ad esempio quella riguardante i criteri fito-sanitari o il rispetto dei vincoli ambientali), sui servizi (inclusi quelli finanziari) e sul lavoro (con minori tutele per i lavoratori e la loro sicurezza). Per questo motivo Bruxelles ritiene che alla fine debba essere la Corte di giustizia europea (che ovviamente si basa sulla legislazione/regolamentazione comunitaria) ad avere l’ultima parola in caso di eventuali controversie. Un punto incedibile per i leader europei per la tutela del loro mercato unico e dei suoi principi. D’altra parte che Johnson non avesse alcuna intenzione di andare incontro alle istanze degli europei era già chiaro dall’accordo concluso con l’Ue stessa lo scorso ottobre in cui aveva ottenuto di togliere il riferimento al level playing field dall’accordo di recesso vero e proprio (giuridicamente vincolante per le parti) per lasciarne un riferimento solo nella relativa dichiarazione politica, che appunto è una mera dichiarazione sul futuro dei rapporti ma che non vincola le parti stesse.

Su questa questione sembra che le posizioni dei negoziatori non si siano finora mosse di un millimetro. D’altra parte è evidente che si tratta di una questione prettamente politica che va affrontata direttamente dai leader politici. Secondo alcune indiscrezioni, dovrebbe esserci a breve un incontro tra Johnson e la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen per cercare un compromesso politico. Ma è difficile che un accordo di questo tipo venga trovato visto che le posizioni sono molto distanti e apparentemente inconciliabili.

Al momento quindi lo scenario più probabile è che ci si avvii verso una ‘hard Brexit’ per fine anno. Una prospettiva che sarebbe negativa sia per il Regno Unito che per l’Unione europea. L’auspicio è che quanto meno in tale prospettiva Bruxelles e Londra possano siglare accordi provvisori sul commercio dei beni e sulla circolazione delle persone per fare in modo che l’1 gennaio 2021 il distacco risulti il meno traumatico possibile (si pensi, ad esempio, alle chilometriche file che potrebbero crearsi alle dogane per l’improvvisa applicazione dei dazi e per procedere ai controlli regolamentari). È peraltro difficile immaginare che i leader europei siano ancora disposti a rincorrere Johnson mentre sono alle prese con un difficile negoziato sulle misure post-Covid, a partire dal Recovery Fund. Johnson da parte sua non può che guardare con una certa apprensione alle prossime elezioni americane perché una eventuale sconfitta di Trump gli sottrarrebbe un importante alleato, mettendo a rischio la prospettiva di un ambizioso accordo di libero scambio con gli Usa. Insomma, non è detta l’ultima parola, ma giorno dopo giorno le speranze di una Brexit ordinata sembrano sempre più affievolirsi.

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Europa brexit Boris Johnson
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AUTORI

Antonio Villafranca
ISPI Research Coordinator | Co-Head Europa e Governance Globale

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